"Lo Stretto è bello e l'aria è buona sebbene molto scirocchevole. Però umidità non ce n'è punta": queste le prime impressioni della sorella di Pascoli, la cara Mariù, in una lettera che invia alla sorella Ida a Santa Giustina, un paese vicino Ravenna. E il fratello Giovanni, di rimando, è entusiasta di trovarsi di fronte alla "...bella falce adunca, che taglia nell'azzurro il più bel porto del mondo...", tra "...il bel monte Peloro verde di limoni e Glauco di fichidindia e l'Aspromonte che, agli occasi, si colora d'inesprimibili tinte".
I due erano giunti a Messina nel gennaio del 1898, quando Giovanni Pascoli fu chiamato ad insegnare Letteratura presso l'Università, in tasca il decreto del ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Codronchi Argeli che lo nominava professore ordinario "senza concorso" e per meriti straordinari, come previsto dall'art. 49 della legge Casati.
Il primo alloggio messinese che prendono a pigione è un appartamento al secondo piano di via Legnano, al numero civico 66. È un'abitazione con gran numero di stanze, al punto che solo poche di esse vengono occupate, però ci sono solo fornelli e manca il camino, particolare che non sfugge a Mariù che se ne lamenta nella lettera alla sorella Ida. La prima, entusiastica impressione di Messina, muta completamente in negativo: ad aggravarla anche la malattia di tifo contratta nel marzo dello stesso anno mangiando cozze a Ganzirri. Mariù è furibonda, preoccupatissima per la salute del fratello, e in un'altra lettera scrive: "...io odio Messina e il suo bel cielo, sempre nuvolo...e il suo bel mare, che vedo e il suo popolo...paghiamo carissima anche l'aria che puzza di concerie e di gas...bisogna cuocere tutto..."
E il Pascoli, costretto a letto per due settimane e poi gravemente ricaduto, scriverà a sua volta all'amico Luigi Pietrobono, il 19 settembre 1899: "Sa che il primo anno a Messina rischiò di essere l'ultimo? Avemmo tutti e due il tifo, e io ebbi una ricaduta, che dava poco a sperare". Ma dopo la guarigione del poeta, nel mese di giugno, Mariù torna nuovamente di buon umore ruconciliandosi con la città. Trascorse le vacanze estive a Castelvecchio di Barga nella sua "diletta bicocca", come amava definirla, Pascoli ritorna a Messina nel novembre del 1898, senza la sorella Mariù che lo raggiungerà poi in occasione delle festività natalizie. Lasciata la casa di via Legnano, va ad abitare in un appartamento di Palazzo Sturiale in piazza Risorgimento al numero civico 162.
La zona è quella di nuova espansione a sud di Messina e l'alloggio è "...moderno, abbastanza vasto, e soprattutto sicuro contro il terremoto...", scrive Pascoli, dimostrandosi anche buon profeta perché l'edificio, scampato al sisma del 1908, è ancora in piedi, nonostante il sacco edilizio che ha stravolto e annientato questa città. Il poeta ne è talmente entusiasta che nell'invitare la sorella "Mariuccina" a tornare a Messina, le fa sapere che la casa "è pulitissima" e decanta la "...bella vista...dalla cucina si vede il forte Gonzaga sui monti...dall'altra finestra il mare, su l'Aspromonte...". E, ancora, definisce lo studio "stupendo" ed occupandosi personalmente dell'arredamento della nuova casa, promette che essa diventerà "...il più bel l'alloggio di...tutta Messina". Palazzo Sturiale ha un portinaio d'eccezione, tale Giovanni Sgroi. Pascoli gli si affeziona, anche se lo definisce "...aborto di Polifemo: guercio, zoppo, piccolo..." e, dopo il terremoto del 1908, si ricorderà di lui e della sua grande bontà d'animo inviando gli una grossa somma di denaro e una lettera dove esprime l'augurio che "...la nostra Messina risorga più bella di prima...".
Nei momenti liberi, il poeta ama passeggiare per la città, in compagnia del collega Manara Valgimigli: sue mete preferite, la Palazzata, la Pescheria, la spiaggia di Maregrosso da dove ammira il "Fretum Siculum" e il mare, quel mare che "Se ci tuffi una mano, gocciola azzurro". E il contatto con i messinesi, come quella volta che gli si avvicinò una bimbetta, povera di stracci e col visino smunto, a chiedergli "Vossia mi dugna un sciuri": non elemosina, ma uno dei fiori che il poeta teneva in mano.
Alla fine di giugno del 1902, Pascoli e Mariù partirono definitivamente da Messina. La notizia della terribile catastrofe del 1908 li sconvolge, li fa soffrire con autentico dolore di figli, e le parole più belle, il poeta le rivolge a questa sua cara citta: scrivendo all'avvocato Luigi Fulci dopo il terremoto del 1908 ("Lettera di Giovanni Pascoli a Luigi Fulci", in "Gazzetta di Messina e delle Calabrie", 9-10 luglio 1910), dirà "Io a Messina ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d'armonie della mia vita", e, ancora, quasi presagendo il terribile sisma del 28 dicembre 1908, aveva scritto: "Tale potenza nascosta donde s'irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l'orma nel cielo, come l'eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.".