Caravaggio: L'adorazione dei pastori e la "lissa"

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“Michel, Angel voi siete, e siete uguale
di chi fu al mondo tale,
ch’a ciascun fu magiore,
e co’l nome, e con l’opre lui sembrate.
Se tal in sì verdi anni vi mostrate
che fiè in età matura?
Da voi le gran maestre Arte, e Natura,
vinte si resteranno,
con vostro eterno honor, lor grave danno”.
 

Michele, in uno dei suoi rari momenti di pausa, rilegge sorridendo il sonetto che l’amico ed estimatore Marzio Milesi gli indirizzò nel 1600, quando aveva appena ricevuto la commissione dei due quadri per la cappella Contarelli in Santa Maria del Popolo a Roma. Milesi, giurista romano e uno dei primi e più ferventi ammiratori della pittura del bergamasco, aveva già composto un entusiastico florilegio poetico dal titolo “Selva per le historie di S. Mattheo dipinte da Michel Angiol da Caravaggio” e avrebbe continuato a scriverne, di appassionati sonetti ed entusiastiche poesie a Michele dedicate, fino al 1610.

Fa caldo nella sua bottega, i pochi vicini di casa in San Leo, con i quali parla, gli hanno detto che mai si era visto un luglio così abbruciato, a Messina, Una calura che ciacca ciaramiti e avvampa gli intonaci bianchi di calce delle case.

Sta lavorando al grande telero dei Cappuccini, quell’”Adorazione dei pastori” che forse, visto il tema del soggetto adatto alla festa e all’allegria, darà un po' di pace e serenità a questo suo animo esacerbato dall’ossessione per la morte.

Il dipinto misura circa dieci palmi di larghezza e quattordici di altezza, composto da quattro porzioni di una tela a trama regolare di ottima qualità. Com’è suo costume, Michele ha riempito la superficie di linee incise, nel braccio di San Giuseppe, nel profilo della spalla e del braccio nudo di uno dei pastori, nelle gambe e nel gomito appoggiato della Madonna, nella spalla del Bambino e nel manto di San Giuseppe, vicino al collo. Anche questa volta usa modelli viventi.

I colori che va stendendo sulla tela sono pochi, le pennellate frenetiche e vibranti come stilettate: il rosso vinoso della tunica della Vergine e del mantello del pastore più vicino a lei, e, l’arancione impolverato del manto di San Giuseppe, convogliano l’attenzione verso il centro del dipinto, fulcro della composizione. E, via via, il giallo di Napoli per le pagliuzze di fieno che sono saette, il grigio sfumato per l’asino e il bue, le terre brune e la biacca, il bianco puro sapientemente steso a spirali per dare luce e tornitezza agli incarnati delle parti anatomiche scoperte.

Alla fine di luglio il dipinto è ultimato.

È un umilissimo presepio siciliano, quello che Caravaggio ha dipinto, dove ritrovare nella Madonna col Bambino stesi a terra l’iconografia bizantina della “Madonna dell’umiltà”. Ancora una composizione in diagonale e ancora la luce che rivela ed esalta, ancora la verità di ciò che si vede e ancora la realtà contemporanea.

Un triangolo d’amore è il gruppo Madonna-Bambino, su cui incombono le figure dei pastori e di San Giuseppe, ma, a ben vedere, è un amore che succhia alimento dal dolore, dolore per un neonato pargoletto cui l’istinto materno presagisce il destino di una morte straziante per mano degli uomini; e a ben vedere, la Madonna altri non è che una madre nell’atto di proteggere il proprio figlio; e a ben vedere, i pastori non esprimono letizia per questa nascita divina che cambierà il mondo: sono statue di un presepe e nei loro sguardi c’è sofferta partecipazione, c’è apprensione, c’è lissa, struggente malinconia per un piccolo essere indifeso destinato a portare la pesante croce che riscatterà l’umanità dal peccato.

Sarà stata la visione di qualche incisione popolare che gli stampasanti messinesi diffondono in periodo natalizio, col santo Bambinello raffigurato dormiente con accanto chiodi, corona di spine, croce, lancia e tenaglia, simboli della Passione, a prefigurare la sua immolazione per la redenzione del mondo; saranno stati gli oscuri presagi di morte che gravano sull’anima del pittore; saranno state le funeree riflessioni dei Cappuccini, Michele esprime una Natività dalla serenità apparente, in realtà un’atmosfera di tensione dolente che pervade tutto il dipinto, che nella letizia dell’evento c’è già il presentimento della morte.

Quanta distanza dal “Riposo nella fuga in Egitto” di dieci anni prima con gli stessi personaggi, il Bambino, Maria e San Giuseppe. Ma lì un paesaggio di sfondo aperto sui colori della campagna, qui un nero fondale di assi e tavole di legno sconnesse; lì San Giuseppe che sorregge uno spartito musicale riprendente alcuni versetti del Cantico dei Cantici, sottoforma di un mottetto composto da un musicista franco-fiammingo, Noel Bauldewijn, qui nessuna melodia accompagna l’evento, nessun Gloria in excelsis Deo, piuttosto un lacerante silenzio. Una “natura morta” posata sullo strame della stalla – un tovagliolo bianco, una bruna pagnotta, una nera pialla da falegname dentro un canestro – non ha allegorie cui alludere, se non all’essenza di poveri oggetti di umile quotidianità.

Per Michele è finito, e definitivamente, il tempo ormai lontano dei turgidi canestri di frutta nel “Fanciullo”, nel “Bacco”, nella “Cena in Emmaus”, “nature morte” ridondanti di fichi, uve, melagrane, pomi, tutti frutti evocati dal Cantico dei Cantici con forte valenza simbolica, specialmente se accostati al fanciullo-Cristo che li porta nella canestra della Grazia. O al bacco androgino maschio e femmina insieme, bianco e nero, positivo e negativo, alfa e omega, perché è dall’unione dei contrari che si raggiunge la perfetta armonia.

Ed è finito anche il tempo del filone comico-morale affrontato nel “Ragazzo morso da un ramarro”, nella “Buona ventura”, nei “Bari”, cui non era stata forse estranea la lettura del “Puer et scorpius” del cremonese Gabriele Falerno, pubblicata a Roma nel 1563 nella raccolta “Fabulae centum”.

Fino alla “Canestra di frutta”, soggetto a sé, raffinatezza grafica da trompe l’oeil, provocazione estrema di un pittore controcorrente che non fa differenza fra un essere umano e un oggetto: non più l’uomo del Rinascimento al centro dell’Universo, ma l’Universo centro di tutte le cose.

Frutti in una canestra, pomi dalla superficie bacata, foglie che stanno avvizzendo, acini d’uva dall’acido odore di marcio, vanità delle cose, decomposizione, putredine, vanitas vanitatum…

Dietro la vita, sta sempre in agguato la morte.


Nino Principato