Giovanni Verga, cantastorie italiano

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Per compare Turiddu quel colpo di pugnale è risultato fatale. Non lo vedete disteso in una pozza di sangue nel campo di fichi d’india della Canziria? A quella mangiauomini di gnà Pina, detta la Lupa, è proprio impossibile resistere con quegli enormi e profondi occhi neri che vi divorano con uno sguardo. Per non parlare dei seni vigorosi, pronti a sbatterveli in faccia per potervi avere a tutti costi.

Provate a chiedere al genero Nanni, che ama la moglie Maricchia ma ogni volta casca come una pera alle avances insistenti della suocera. La sua coscienza è in crisi e neanche le forze dell’ordine sembrano riuscire a porre fine a questa situazione incresciosa, che mette in disonore la povera Maricchia. Per Nanni non resta che farsi giustizia da solo. Gliela farà vedere lui alla Lupa di che pasta è fatto.

Attenzione, sta per arrivare quel linguacciuto di compare Ciolla. Tutti si avvicinano al Caffè dei Nobili per sentire quel che ha da dire su quell’arrivista di mastro don Gesualdo Motta, appena accasato con quella bellezza nobiliare pallida ed evanescente di donna Bianca Trao. Neanche l’aver dato ospitalità a mezzo mondo durante l’epidemia di colera ha fatto mutare i giudizi della gente sul possidente. Soltanto Diodata sembra provare gratitudine nei suoi confronti. Che cosa ne sarà di mastro don Gesualdo?

Adesso spostate lo sguardo al monastero delle suore di clausura di Catania. L’epidemia di colera è passata, eppure suor Maria è sempre febbricitante. Il suo cuore palpita per Nino, ma per non contravvenire alle volontà del padre e della matrigna ha deciso egualmente di portare avanti la vocazione religiosa vacillante. Sfortunatamente sua sorella ha sposato il giovane amato da Maria e, quel che è peggio, hanno preso casa proprio di fronte al monastero e li vede scambiarsi tenerezze dalla finestra. Riusciranno a reggere il cuore e la mente di suor Maria?

Con questo caldo però non si può non andare al mare. Li vedete laggiù i faraglioni di Aci Trezza? Se riuscite a focalizzare lo sguardo vedrete la silhouette di una donna del gran mondo, che si chiede lamentandosi come sia possibile vivere in un paese di mare dove non accade niente di interessante. L’amico scrittore la guarda basito e gli spiega che per gli abitanti di Aci Trezza è impossibile cambiare aria e desiderare una vita migliore, perché sono radicati nel loro paese come l’ostrica allo scoglio. A sentire parlare di quelle ostriche alla donna di mondo è venuta l’acquolina in bocca, ma lo scrittore la porta di tutto punto all’osteria della Santuzza a bere un bel bicchiere di vino e fargli vedere la fine che ha fatto Ntoni Malavoglia.

Che fate siete più orbi di zio Santoro? Non lo vedete quel cetriolo e minchione di Ntoni seduto al bancone dell’osteria del paese a bere a scrocco il vino di massaro Filippo? Che delusione per il nonno padron Ntoni, la madre Maruzza la Longa e i fratelli che sgobbano da mattina a sera per riacquistare la casa del nespolo, perduta per non aver saldato in tempo il debito dei lupini a causa del naufragio della Provvidenza. A padron Ntoni non resta che confidare nel nipote Alessi, più responsabile e volenteroso del fratello maggiore e degno erede di questa famiglia di pescatori segnata dalla sventura.

Di queste e altre storie è stato cantore Giovanni Verga, di cui il 2 settembre si celebrerà il centottantesimo anniversario della nascita.

Discendente di un ramo cadetto della nobiltà siciliana legato ai baroni di Fontanabianca, Verga è nato a Catania il 2 settembre 1840 dal possidente terriero Giovanni Battista Verga Catalano e da Caterina di Mauro, esponente della borghesia catanese[1]. Il territorio ibleo costituirà fonte di ispirazione per Giovanni Verga, che ne farà lo scenario principale delle sue novelle e dei suoi romanzi. Tuttavia ridurre lo scrittore catanese a narratore verista della Sicilia dell’Ottocento e dei primi del Novecento è quanto più di sbagliato si possa commettere. Allo stesso modo a mio parere è sbagliato pensare che ci sia un primo Verga romantico, un secondo realista-galante e un terzo verista. Queste tre correnti letterarie sono sempre presenti nello scrittore, soltanto che di volta in volta per coerenza con la tematica e la struttura narrativa dell’opera considerata – novella o romanzo che sia – un genere prevale sugli altri. Tutto ciò si evince scandagliando la sua vita.

Fin da giovane Giovanni Verga dimostrò un’inclinazione e una passione viscerali per la scrittura. Cresciuto leggendo i romanzi storici di Chateaubriand, Victor Hugo e Guerrazzi e i feuilleton francesi di Alexandre Dumas padre, Eugene Sue e Feuillet, Giovanni Verga scrisse all’età di quindici anni il romanzo storico di impronta romantica Amore e Patria che, rimasto inedito, incontrò l’entusiasmo del professore don Antonio Abate, fervente patriota di idee repubblicane, che provava molta stima per lo scrittore in erba, mentre fu duramente stroncato e giudicato immaturo dal canonico Mario Torrisi, che gliene sconsigliò la pubblicazione.

Gli studi superiori condotti sotto la guida di don Antonio Abate diedero all’aspirante scrittore una solida formazione letteraria e filosofica grazie alla lettura delle opere di Dante, Petrarca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Vincenzo Monti, Alessandro Manzoni, quel dannato Hegel e il romanzo storico-patriottico I tre dell’assedio di Torino di Domenico Castorina, “lontano parente di Verga”[2].

Quando Verga si iscrisse controvoglia alla facoltà di legge dell’Università di Catania nel 1858, mise mano al suo secondo esperimento narrativo: il romanzo I carbonari della montagna. L’opera, pubblicata a proprie spese in quattro volumi tra il 1861 e il 1862, narra della rivolta dei carbonari calabresi contro il regime di Gioacchino Murat ed evidenzia la partecipazione dello scrittore siciliano alla riflessione politica risorgimentale.

Lo sbarco dei Mille di Garibaldi suscitò l’entusiasmo del giovane autore il quale aderì alla Guardia Nazionale, ma la scarsa inclinazione alla vita militare e l’aver assistito alle misure repressive contro i moti insurrezionali popolani dovuti all’aumento del dazio sul macinato e alla mancata assegnazione delle terre ai contadini suscitarono in lui un forte ribrezzo per la violenza dimostrata tanto da una parte quanto dall’altra e, dopo aver versato 3.100 lire alla Tesoreria Provinciale, ottenne l’esonero dopo quattro anni di servizio e riprese l’attività di scrittore a tempo pieno.

L’esonero dal servizio militare non deve essere inteso come un rinnegamento da parte di Verga della causa unitaria sabauda. La conferma si ha nella novella Libertà (Domenica del Corriere, 1882; Novelle rusticane, 1883) in cui Verga racconta attraverso il punto di vista impersonale gli eccidi di Bronte, descrivendo in maniera vivida e realistica come un giornalista sul campo la violenza istintiva e irrefrenabile della popolazione contro i galantuomini (vale a dire i nobili, i possidenti, i preti, i gendarmi, i professionisti e i commercianti) perché era stata promessa la libertà, ossia la concessione delle terre ai contadini. Verga descrive la violenza del popolo come l’onda spumeggiante di un mare in tempesta che si riversa implacabile con falci in mano e le urla di A te che si ripetono cadenzate come un’allitterazione poetica contro l’ipocrita e gaudente classe dirigente e non solo, visto che tra le vittime dell’insurrezione c’è anche la prostituta gnà Lucia per essere in peccato mortale.

La voce narrante critica aspramente la violenza popolare, ma allo stesso tempo ne prova compassione per la repressione attuata dal “generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo”[3]. Il generale in questione è Nino Bixio che, dopo aver bestemmiato a destra e a manca, fucilerà cinque persone – tra cui lo scemo di paese – e riporterà l’ordine. Il narratore inoltre prova compassione per i familiari dei rivoltosi, che aspettano invano davanti al carcere nella speranza di poter far visita ai propri cari, e mette in luce la lentezza burocratica della giustizia nell’emettere il verdetto di colpevolezza contro gli insorti.

In questa bellissima novella Verga nell’adottare il punto di vista neutro e impersonale non può però fare a meno di esprimere un’opinione, per quanto velata, sulla libertà e sull’organizzazione sociale del nuovo Stato. In quest’opera, come nelle altre opere veriste, ci rendiamo conto come la pretesa di imparzialità del verismo o naturalismo sia di fatto impossibile, perché lo scrittore non può separarsi da ciò che è e alla fine il suo modo di essere e il suo pensiero in qualche modo si presenteranno nella descrizione dei personaggi.  

Se leggiamo infatti con attenzione Libertà ci accorgiamo come in Verga fin da subito emerga la condanna della violenza in tutte le sue forme e, la compassione che prova nei confronti della popolazione in rivolta, non è una condivisione della loro battaglia, ma semplicemente partecipazione umana alle ingiustizie sociali da lui ritenute inevitabili e ineliminabili. Nell’affermazione amara del carbonaio in manette si evince come per lo scrittore catanese i rivoltosi abbiano frainteso il concetto di libertà, che non deve intendersi in senso sociale (libertà positiva) ma politico (libertà negativa):

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà![4]

Ciò che mette in discussione Verga non è l’organizzazione sociale – per un possidente come lui è inimmaginabile che i contadini possano appropriarsi e sappiano ben gestire e mettere a frutto le terre demaniali – ma l’arbitrarietà del potere – il quale non avrebbe dovuto gestire l’insurrezione uccidendo in maniera fredda e indiscriminata – e l’inefficienza della giustizia, la cui lunghezza dei processi suscita negli accusati un’attesa logorante.                               

Nei primi anni dell’Unità d’Italia Verga si distinse come giornalista politico e fondò con Nicolò Niceforo, noto come Emilio Del Cerro, e l’ex insegnante Abate il settimanale politico Roma degli Italiani in cui si batté per uno Stato con un forte potere centrale. La battaglia anti-regionale portò Verga e Niceforo alla separazione da Abate, che era per un’Italia unita in cui alla Sicilia fosse riconosciuta l’autonomia amministrativa, e inaugurarono il periodico L’Italia contemporanea, che ebbe però breve vita. L’unico numero pubblicato è però di notevole importanza poiché contiene la prima novella verista di Verga: Casa da thè (1862).

In seguito Verga diede vita all’Indipendente, di cui cessò la pubblicazione dopo dieci numeri, e si dedicò alla stesura del romanzo storico di ambientazione veneta Sulle Lagune, uscito a puntate sulla rivista fiorentina Nuova Europa dal 13 gennaio al 15 marzo 1863, che narra della storia d’amore tra un ufficiale austro-ungarico e una giovane veneziana nell’attesa della guerra risorgimentale che porrà fine alle angherie e ai soprusi del potere asburgico.

Molto importante si rivelerà il periodo fiorentino, in cui apprendiamo che Verga non lo era soltanto di nome ma anche di fatto.

Il 5 febbraio 1863 morì il padre di Giovanni Verga e nel 1865 il futuro autore de I Malavoglia avvertì la necessità di andare a Firenze, capitale del Regno d’Italia dal 1865 al 1871, nella speranza di entrare nel milieu intellettuale e affermarsi come scrittore in modo tale da vivere esclusivamente del suo reddito. Il giovane ventitreenne avvertiva poche possibilità di successo nell’angusta e provinciale realtà culturale siciliana e riteneva impossibile non solo farsi un nome, ma anche ottenere l’agognata indipendenza economica se avesse continuato a scrivere in Sicilia. A Firenze avrebbe vissuto in un clima culturale più vivace e con i contatti giusti avrebbe potuto inserirsi nei salotti letterari più alla moda.

È in questo contesto che Verga ottiene il suo primo successo commerciale con il romanzo realistico-galante a sfondo autobiografico Una peccatrice, edito dalla casa editrice torinese Negro nel 1866. In questo romanzo l’autore ripercorre attraverso il protagonista Pietro Brusio la storia d’amore intrattenuta con una nobildonna piemontese, che nel romanzo prende il nome di Narcisa Valderi contessa di Prato, e la vita mondana catanese. Non è difficile immaginarsi compare Giovannino Verga passeggiare in un caldo pomeriggio d’estate lungo la via Etnea con questa bella forestiera del gran mondo per poi sedersi al tavolino di un caffè per ristorarsi con una buona granita. Pietro Nardi nella Vita di Giovanni Verga, contenuta nell’edizione Mondadori de I Malavoglia da lui curata, afferma che la storia d’amore tra lo scrittore emergente e la “peccatrice” era ben nota presso l’opinione pubblica catanese.

Con La peccatrice Verga riuscì a farsi riconoscere come artista rivelando al mondo letterario il suo ingegno eccezionale e anche le sue capacità amatorie.

A partire dal 1869 lo scrittore catanese si trasferirà stabilmente a Firenze, dove vi resterà fino al 1871. In questi anni legherà con il fedelissimo amico di penna Luigi Capuana e stringerà una fragile amicizia interessata e contrassegnata dalla competizione amorosa con il giovane poeta catanese Mario Rapisardi. Questi si mobilitò per introdurre il conterraneo nella cerchia letteraria fiorentina fornendogli la lettera di presentazione per Francesco Dell’Ongaro, tra le massime autorità letterarie fiorentine del tempo.

Giovannino non si presentò subito da Dell’Ongaro perché, sebbene avesse provveduto a rinnovare il corredo prima della partenza da Catania, si rese conto, una volta giunto a Firenze, di essere fuori moda e non voleva sfigurare davanti all’illustre letterato. Una volta procuratosi l’abito il ventinovenne catanese si presentò al critico letterario, che spese innumerevoli parole d’elogio per il romanzo Una peccatrice e lo fece inserire nei più importanti circoli letterari fiorentini: come quelli della signora Swanzberg, distinta pittrice tedesca dell’epoca madre di due bellissime fanciulle dotate per il canto, e della scrittrice Ludmilla Assing, anche questa tedesca, che segnalerà il romanzo sopracitato alla Neue Freie Presse di Vienna.

A Firenze Verga frequentò inoltre stabilmente i teatri nella speranza di affermarsi anche come autore teatrale di rilievo e divenne un frequentatore assiduo dei ristoranti e dei caffè di punta dell’epoca, come ad esempio il Caffè Michelangelo.

Il 1869 si rivelerà un anno decisivo per lo scrittore catanese. Proprio il 23 giugno di quell’anno inizierà la stesura di Storia di una capinera, il suo primo capolavoro e che, grazie all’intermediazione di Dell’Ongaro, riuscirà a pubblicare nel 1871 con l’editore milanese Lampugnani.

Scritto interamente a Firenze, Storia di una capinera è un romanzo epistolare di notevole bellezza che narra della travagliata e impossibile storia d’amore tra la novizia suor Maria e il giovane Nino durante l’epidemia di colera che colpì la provincia di Catania negli anni ’50 dell’Ottocento. Una volta scoppiata l’epidemia Maria, al pari delle altre novizie, torna alla casa paterna per trascorrere il periodo di autoisolamento, vale a dire il lockdown. Qui ritrova la matrigna e l’amata sorella, a cui Maria pettina i capelli con piacere e che loda per essere sempre alla moda, e trascorre le serate con Nino e la sua famiglia. Il contatto con la bellezza della natura e in seguito la lacerante passione d’amore per Nino metteranno a dura prova la vocazione religiosa di Maria che, una volta terminata l’epidemia di colera, rientrerà in convento per ritrovarsi cornuta e bastonata. Infatti non soltanto sarà costretta a portare a termine la formazione religiosa obbedendo alla volontà della famiglia, ma dovrà inoltre accettare il matrimonio tra sua sorella e Nino e, quel che è peggio, se li ritroverà ad abitare nel palazzo antistante alla camera del convento in cui dimora in preda a una febbre delirante che la condurrà alla morte.

Il conflitto interiore di Maria tra volere e dovere, tra la libertà di amare l’uomo che desidera e l’obbedienza alla volontà della famiglia di prendere i voti, è descritto a mio parere da Verga con una grazia senza pari e che fanno di Storia di una capinera un capolavoro degno di questo nome.

Inoltre emerge un fatto storico, quale l’epidemia di colera degli anni ’50 dell’Ottocento, che ha segnato in maniera indelebile la memoria di Verga e che riporterà anche in altre opere, come nei due romanzi del ciclo dei Vinti I Malavoglia (1881) e Mastro Don Gesualdo (1889).

Ad ogni modo Firenze e la sua società mondana non resteranno fuori dai margini nella narrativa dello scrittore. Il periodo fiorentino infatti diventerà lo scenario per la trilogia galante composta dai romanzi Eva (1873), Tigre Reale (1873) e Eros (1875), in cui si avverte l’influenza della Dama delle camelie di Dumas figlio e del realismo di Flaubert.

A Firenze Verga tenterà senza successo la carriera teatrale scrivendo per la musa De Paladini, prima attrice dell’Arena Nazionale, la commedia Rose caduche, in cui un giovane scrittore si innamora follemente di un’attrice e che, secondo i critici e biografi verghiani Giulio Cattaneo e Lina Perroni, è una trasposizione del romanzo Una peccatrice, e che costituisce la conferma della tendenza dello scrittore siciliano a far derivare le sue opere teatrali da precedenti opere narrative, novelle o romanzi che siano.

In questi anni particolarmente interessante è il legame che Giovanni Verga intrattiene con Giselda Fojanesi, di cui diventerà trombamico, e per il cui amore entra in competizione con Rapisardi. Alla fine Fojanesi sposerà Rapisardi il 12 febbraio del 1872, ma Verga non romperà i ponti con la sua ex fiamma; anzi – come vedremo – continuerà a mantenere con lei un rapporto epistolare molto intenso.

Il legame con Giselda Fojanesi è stato molto probabilmente fonte di ispirazione per il romanzo sentimentale-borghese Il marito di Elena del 1882, in cui l’autore analizza le dinamiche di coppia all’interno della famiglia borghese, narrando le vicende di un marito cornuto il cui tentativo di avere la compassione dell’opinione pubblica viene accolto con biasimo. In questo romanzo emerge il disprezzo di Verga per la ricchezza e lo spreco delle classi agiate e possiamo dedurre perché sia rimasto uno scapolo impenitente per tutta la vita.

L’ipotesi che il legame con Giselda Fojanesi sia stato a fondamento del romanzo sopracitato è a mio parere suffragata dal fatto che nel 1883, ossia un anno dopo la pubblicazione de Il marito di Elena, il misterioso, riservato e taciturno Giovanni Verga, che nelle serate mondane osserva e ascolta con attenzione tutto ciò che lo circonda, sia stato la causa della rottura tra i coniugi Rapisardi. Dopo la scoperta di una lettera della moglie Giselda a Verga in cui si evinceva il perdurare di un solido legame d’amicizia, confermato dal fatto che l’autore siciliano si impegnava a far pubblicare i bozzetti narrativi di ambientazione toscana dell’amica scrittrice, Rapisardi ebbe delle scenate di gelosia che incrinarono il suo matrimonio. Verga, da parte sua, prese le difese dell’amica e la loro amicizia si consolidò alla faccia di quel grandissimo cornuto di Rapisardi.

Dal 1872 Verga si trasferì a Milano dove entrò in contatto con la cerchia artistica degli Scapigliati, tra cui ricordiamo Iginio Ugo Tarchetti, celebre autore di Fosca, e incitò l’amico Capuana a trasferirsi nella città meneghina per “vivere alla gran d’aria”[5].

Oltre a non essere più la capitale d’Italia Firenze, anche per le vicende personali descritte in precedenza, aveva perso attrattiva per lo scrittore siciliano. Milano era già all’epoca la capitale dell’editoria italiana e lì si trovavano le correnti letterarie del momento. Qui approfondì la narrativa naturalista di Zola e strinse amicizia con il traduttore svizzero Rod (primo traduttore francese de I Malavoglia), scrittori affermati come Antonio Fogazzaro (Malombra e Piccolo mondo antico) e Matilde Serrao (Il ventre di Napoli) ed emergenti come Federico De Roberto, discepolo che si batterà con ardore per il riconoscimento della grandezza letteraria di Verga.

Negli anni milanesi Verga scriverà la trilogia fiorentina comprendente Eva, Tigre reale ed Eros in cui, oltre alle influenze francesi menzionate in precedenza, si avvertono anche i punti di contatto con la scapigliatura dorata milanese, quella del mondo del lusso e della galanteria. Ma soprattutto si affermerà come scrittore verista con la novella Nedda (1874), il romanzo I Malavoglia, le raccolte di novelle Vita dei campi poi Cavalleria Rusticana e altre novelle (1880-1882), tra cui non possiamo menzionare La Lupa e Rosso Malpelo, e le Novelle Rusticane (1883).

La storia della giovane operaia raccoglitrice di olive Nedda la cui bellezza è segnata dal lavoro nei campi e che pur lavorando sodo non riesce a uscire da una vita di stenti lasciò il segno all’epoca nel lettore italiano. La novella è in effetti un racconto scritto magnificamente in cui il lettore non può non sentirsi partecipe alla sorte della povera ragazza che, dopo aver perso la madre, si innamora del cagionevole contadino Janu, il quale dopo aver preso la febbre malarica cade dalla scala su cui era salito per la rimondatura degli ulivi e, ferito gravemente, muore sulla strada verso casa, facendo di Nedda Di Gaudio, detta la Varannisa, una ragazza madre. La protagonista si ritroverà a fare i conti con le maldicenze del paese al punto che le sarà impedito di frequentare la messa al santuario della Madonna della Ravanusa a cui è molto devota. Nedda partorirà una bambina rachitica che, non riuscendo a provvedere al suo sostentamento, morirà nel giro di breve tempo nello stesso letto su cui era spirata la madre e loderà la Vergine Maria per averle tolto la figlia, impedendole in questo modo di vivere una vita di stenti come la sua.

La novella lascia nel lettore una serie di immagini forti e nette come in una lastra fotografica a cui il lettore non può rimanere indifferente.

Con il romanzo I Malavoglia Verga inaugura il ciclo dei Vinti, che in tutto avrebbe dovuto comprendere cinque romanzi: I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa de Leyra, L’onorevole Scipione e L’uomo di lusso.

Di questo ciclo riuscirà a portare a termine soltanto i primi due e, per ironia della sorte, vinto anche lui come i personaggi del ciclo narrativo in questione, proverà il rimpianto di non aver concluso il suo progetto letterario più ambizioso imprecando a santo diavolone come i personaggi de I Malavoglia.

Con il ciclo dei Vinti Verga si pose l’obiettivo ambizioso di descrivere l’evoluzione delle passioni umane e della ricerca di una vita migliore, dalle classi più umili alle classi più agiate, ponendo nell’ideale dell’ostrica lo strumento di indagine con cui analizzare quest’evoluzione affiancandolo a un differente uso del registro linguistico e dei punti di vista, in base alla classe sociale considerata, e a un uso massiccio del discorso indiretto, del discorso indiretto libero e del discorso diretto nella struttura romanzesca.

Quest’operazione permetterà a Verga di scrivere i due capolavori romanzeschi per cui è maggiormente ricordato, I Malavoglia e Mastro don Gesualdo che però all’epoca, ad eccezione degli elogi dei veristi Capuana e De Roberto, del naturalista Rod e qualche altro, non furono molto apprezzati dai lettori italiani. In particolare inizialmente I Malavoglia non fu accolto positivamente per avere una struttura linguistica e narrativa completamente differente dai romanzi borghesi verghiani e lo stesso editore, il milanese Treves – che pubblicò anche Mastro don Gesualdo – non fu particolarmente entusiasta del romanzo verista dell’autore siciliano, non cogliendone la portata innovatrice all’interno della narrativa italiana.

Personalmente penso che Treves non abbia amato I Malavoglia perché non ha letto il romanzo nel momento giusto della sua vita. Inoltre probabilmente non l’avrà letto ad alta voce, modulando l’intonazione così come fanno gli attori, i cantastorie e i maestri pupari, poiché a quel punto si sarebbe reso conto della vivacità espressiva e della forza linguistica del testo.

Io stesso mi ricordo che da adolescente non fui particolarmente entusiasta dell’opera quando alle superiori la professoressa ci costrinse a leggere per le vacanze estive I Malavoglia di Verga, Il Piacere di D’Annunzio, Il Gattopardo di Tomasi Lampedusa e La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Se gli ultimi due li lessi con grande entusiasmo perché erano più nelle mie corde, le avventure di quel dannato esteta di Andrea Sperelli le trovai di una pesantezza pazzesca e lo stile di D’Annunzio troppo borioso e di una ricercatezza inopportuna – la pallida ombra del cinico Oscar Wilde –, mentre la lettura de I Malavoglia subito dopo il bellissimo terzo capitolo del naufragio della Provvidenza, che tanto mi rimase impresso da scrivere una delle mie prime poesie, mi risultò noiosa e la interruppi. Non sto a raccontare la delusione mista a rabbia della professoressa d’italiano quando volutamente non avevo portato a termine le letture estive.

Quando ho ripreso il romanzo per la stesura di quest’articolo commemorativo della nascita di Verga mi sono entusiasmato all’opera; ma riconosco ancora che il quarto, il quinto e il sesto capitolo non siano particolarmente riusciti e, considerate notevoli capacità narrative di Verga, l’autore avrebbe potuto fare di meglio. Tuttavia ci sta che in un romanzo qualche capitolo non funzioni e pertanto riconosco che I Malavoglia sia un romanzo all’altezza della sua fama. Oggi infatti sono un lettore molto più maturo e con un bagaglio di esperienze maggiori: per cui riesco a comprendere il tormento che vive padron Ntoni per la perdita del carico di lupini presi in credenza da quell’usuraio pezzo di fango di zio Crocifisso, come anche altri passaggi romanzeschi che in gioventù mi sembravano distanti anni luce dalle problematiche adolescenziali che provavo come tutti i giovani di questo mondo.

Se nei Malavoglia e Mastro don Gesualdo il ragionamento di fondo è lo stesso, vale a dire il pensiero fatalista pessimistico alla base della riflessione verghiana, tuttavia l’ideale dell’ostrica si manifesta in maniera differente nei due romanzi.

Nei Malavoglia l’ostrica rappresenta l’impossibilità degli umili di sradicarsi dalle proprie radici e auspicare un miglioramento delle condizioni di vita. Tutti coloro che provano a migliorare il proprio status come Ntoni Malavoglia (il nipote maggiore di padron Ntoni) e Lia, la più giovane dei Malavoglia, proveranno l’amarezza della sconfitta. La sorte peggiore tuttavia sarà riservata al figlio di padron Ntoni, Bastianazzo, che morirà nel naufragio della Provvidenza, e al nipote Luca, che morirà nella battaglia navale di Lissa del 1866, a bordo della Re d’Italia, dopo una strenua resistenza al nemico austro-ungarico, dimostrando valore e attaccamento al giovane regno italiano.

Nel romanzo molto importante è anche lo scontro generazionale, non soltanto tra il nonno padron Ntoni e il nipote Ntoni Malavoglia, ma anche tra gli stessi giovani appartenenti a differenti fasce d’età.

A tal proposito si può evidenziare come Ntoni Malavoglia e il fratello minore Luca sperimentino in maniera totalmente diversa l’obbligo della leva militare.

Ntoni vivrà a Napoli il lato gioioso del servizio di leva, quello del fascino della divisa, stringendo diverse relazioni amorosedi cui si vanterà non poco al suo ritorno ad Aci Trezza – con donne dagli abiti di pizzo che gli si avvicinano soltanto vedendolo. Di questa esperienza conserverà dolci ricordi ma trarrà l’insegnamento – che nonostante il punto di vista impersonale e oggettivo Verga fa capire di biasimare – che per riuscire nella vita non bisogna fare nulla, come dimostrano i membri dell’alta società che sono serviti e riveriti senza muovere un chiodo, e che pertanto non ci si deve impegnare nel lavoro, ancor meno se manuale e particolarmente faticoso; che le femmine sono inaffidabili e volubili e che bisogna  infine trascorrere tutti i santi giorni all’osteria della Santuzza a tracannare vino come una spugna.

A niente servono gli sforzi del povero padron Ntoni a convincere suo nipote, che facendo così si rende ridicolo e dimostra di essere un cetriolo e un minchione, causando un forte dispiacere a lui, a sua madre Maruzza detta La Longa e anche ai fratelli, in particolare alla laboriosa Mena e al responsabile Alessi, un Malavoglia degno di questo nome, che porterà avanti l’attività di pescatori tramandata in famiglia di generazione in generazione.

Ntoni alla fine, dopo la morte della madre colpita dal colera ed essere stato in carcere per aver aggredito il carabiniere don Michele che aveva mostrato interesse verso la sorella Lia, non potrà che abbandonare Aci Trezza, dal momento che si sente fuori luogo, e la famiglia non può far niente per trattenerlo come l’ostrica allo scoglio, poiché ha bisogno di fare le sue esperienze e di trovare la sua strada.

Il fratello Luca, invece, sperimenterà – come abbiamo visto –   il lato negativo del servizio di leva, che si ritroverà a svolgerlo nel pieno della terza guerra d’indipendenza. La sua morte in battaglia farà di Luca un genio famigliare, come quelli degli antichi romani, arricchendo il mito del focolare della famiglia Malavoglia, che ha già tra le sue fila il compianto Bastianazzo. Spesso si dice che “dei morti non si parla mai male” e a tal proposito padron Ntoni ricorderà sempre con affetto il suo caro nipote morto per la patria.

Nel romanzo la città di Messina viene menzionata due volte: all’inizio della leva di Ntoni, con il treno che si trova a dover attraversare lo Stretto per sbarcare in continente, e al momento del ritorno dei sopravvissuti al conflitto bellico.

Molto interessante è il resoconto della guerra che fa uno dei soldati all’osteria della Santuzza e che menziona un bersagliere, di ritorno a Messina, che aveva combattuto a Custoza, sul fronte veneto, e gli aveva raccontato di come la paura di essere colpito dalle pallottole nemiche spinga i soldati a gettarsi per terra e nascondersi il più possibile per evitare di finire ammazzati e tornare a casa sani e salvi.

Messina è un crocevia all’interno del romanzo che segna in sordina i destini dei personaggi ed è testimone dei cambiamenti radicali che avvengono nelle loro vite. Infatti come le correnti dello Stretto cambiano direzione e nel loro riproporsi non sono mai uguali, così i personaggi del romanzo, tanto quelli principali come i membri della famiglia Malavoglia quanto i personaggi comprimari e secondari quale il soldato messinese incontrato sul treno, non tornano mai come sono partiti, come dimostra il cambiamento repentino della visione del mondo di Ntoni Malavoglia oppure, come dimostra il caso di Luca, non tornano più.

Particolarmente interessante è inoltre il rapporto che Verga fa tra il resoconto della battaglia navale di Lissa da parte dei due soldati della marina italiana e le cantate dei paladini di Francia dei cantastorie catanesi:

In quel crocchio, invece dell’asino caduto, c’erano due soldati di marina, col sacco in spalla e le teste fasciate, che tornavano in congedo.

Intanto si erano fermati dal barbiere a farsi un bicchierino d’erbabianca. Raccontavano che si era combattuta una gran battaglia di mare, e si erano annegati dei bastimenti grandi come Aci Trezza, carichi di soldati; insomma un mondo di cose che parevano quelli che raccontano la storia d’Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania, e la gente stava ad ascoltare colle orecchie tese, fitta come le mosche[6].

La bellezza de I Malavoglia risiede nella capacità di Verga di delineare la psicologia dei personaggi in azione, attraverso il discorso indiretto e diretto, e fornire delle immagini fortemente impressioniste che restano incastonate nella mente del lettore. A me ad esempio sono rimaste particolarmente impresse le descrizioni del naufragio della Provvidenza, la disperazione di Maruzza in attesa di Bastianazzo sulla sciara di Aci Trezza; il dialogo alla finestra nel pieno della notte tra Mena Malavoglia e Alfio Mosca, incarnazione di un amore reticente che non potrà essere soddisfatto, o ancora il pianto di Mena sotto l’albero di nespolo oppure il litigio di Ntoni Malavoglia con Piedipapera per la rispettabilità dell’onore di Barbara Zuppidda di cui è innamorato.

Infine il romanzo ci insegna che la lettura non deve mai essere imposta, ma al contrario deve essere frutto dell’iniziativa del lettore. In un passo del romanzo lo speziale di idee repubblicane cerca di invogliare Ntoni Malavoglia alla lettura dei quotidiani per portarlo dalla sua parte ma il giovane, che aveva imparato a leggere quando aveva fatto il soldato, si stancherà subito della lettura e tornerà a gozzovigliare come al suo solito.         

In Mastro don Gesualdo l’ideale dell’ostrica si manifesta, invece, come attaccamento senza speranza alla roba. A nulla servirà a mastro don Gesualdo dimostrare che anche un muratore dell’area di Vizzini può diventare un possidente borghese e nobilitarsi con il matrimonio, poiché sarà sempre considerato un arrivista e, nonostante il bene profuso dando lavoro e offrendo ospitalità e cura – si pensi alla vicenda del colera  – alla fine si sentirà né carne né pesce e, da un lato, sarà considerato un traditore dagli esponenti della propria classe d’origine, incluso il padre e, dall’altro lato, un po’ come i Florio a Palermo, non sarà mai considerato a pieno titolo un nobile dalle antiche casate iblee in decadenza, come ad esempio i Trao con cui si era imparentato attraverso la moglie.

A mio parere il personaggio più avido e attaccato alla roba non è mastro don Gesualdo, che non esita a privarsi del denaro accumulato per finanziare i moti carbonari del ’21 o per aiutare e fornire ospitalità alla gente durante l’epidemia di colera o offrire le migliori cure alla moglie morente; ma la baronessa Rubiera, donna di origini borghesi il cui senso degli affari l’ha portata a nobilitarsi come il protagonista del romanzo, che perfino da paralitica riesce a manifestare la propria avidità e non lesina biasimo a quello scapestrato del figlio don Ninì Rubiera, dedito a sperperare l’eredità famigliare in donne e gioco d’azzardo.

A mio giudizio Mastro don Gesualdo è il vero capolavoro di Verga con la sua varietà di registri linguistici, il modo estremamente realistico in cui l’autore descrive la vita quotidiana, mondana e affaristica di Vizzini e dintorni e la profondità psicologica dei personaggi. L’autore riesce nell’intento di trascinare il lettore nei possedimenti di mastro don Gesualdo, gli fa vivere con entusiasmo la vendita all’asta per l’acquisto delle terre demaniali; o ancora trasforma il lettore in un invitato alla serata di gala dell’alta società aristocratica catanese, in un passeggiatore tra le strade di Vizzini col rischio di essere trascinato in una conversazione con persone che non si vorrebbe vedere neanche per sogno – come quel pettegolo che mette sempre zizzania di compare Ciolla  – o ancora in un frequentatore abituale del Caffè dei Nobili che, mentre partecipa con fervore alle discussioni da bar, getta uno sguardo languido e fugace alle belle donne che passeggiano per strada.

Nei Malavoglia c’è l’intento da parte dell’autore di non essere così realistico e veritiero come nel secondo romanzo del ciclo dei Vinti. Aci Trezza e i suoi abitanti infatti sono a mio modo di vedere più che altro uno stato mentale. Nell’incipit del romanzo, ad esempio, apprendiamo che il paese ha un sindaco – che in seguito si rivelerà essere mastro Croce Callà, che viene comandato a bacchetta dalla figlia Betta – quando in realtà è una frazione del comune di Aci Castello.

Molto interessante è anche la diversità e varietà di sapori e pietanze che c’è nei Malavoglia e in Mastro don Gesualdo. Nel primo c’è una prevalenza del salato e fa venire voglia di mangiare cozze, fritto di mare, acciughe salate, tonno e pesce spada il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino; mentre nel secondo romanzo si ha la sensazione di essere a un buffet squisitissimo, che va dalla buonissima ricotta di Vizzini fino al rigenerante e dissetante sorbetto al limone.

Tra i personaggi del romanzo merita particolare attenzione la figura di Isabella Motta-Trao, successivamente duchessa di Leyra, figlia di mastro don Gesualdo e Bianca Trao, che vivrà un’impossibile storia d’amore con un cugino coetaneo durante l’epidemia di colera e che il padre don Gesualdo costringerà a sposare l’influente nobile palermitano duca di Leyra nella speranza di darle un futuro migliore e ampliare il prestigio e il patrimonio di famiglia. Questo matrimonio si rivelerà infelice per Isabella e infruttuoso per il padre che, per arricchire la dote matrimoniale della figlia e soddisfare l’ambizione del genero, si troverà costretto a cedere parte del patrimonio acquisito col duro lavoro.

Verga si auspicava di tratteggiare meglio l’evoluzione del personaggio di Isabella duchessa di Leyra nel terzo romanzo del ciclo dei Vinti: La duchessa de Leyra. Di questo romanzo Verga scrisse soltanto i primi due capitoli che uscirono postumi, nel 1922, nelle pagine de La Lettura del Corriere della Sera grazie all’intervento del fedelissimo Federico De Roberto.

Subito dopo la pubblicazione di Mastro don Gesualdo Verga entrò in un blocco creativo che gli impedì di portare a termine la saga narrativa su cui scommetteva la propria carriera di scrittore. Lo scrittore si recò più volte a Palermo per reperire i documenti necessari a dare rigore storico al romanzo, ma la difficoltà a creare una struttura romanzesca tale da mettere in evidenza la vacuità e la vanità aristocratiche gli impedirà di procedere oltre nella stesura dell’opera.

A mio modo di vedere bisogna considerare anche che Verga era conscio che con Mastro don Gesualdo aveva scritto un romanzo talmente perfetto in cui rintracciamo in maniera più matura e compiuta tutte le tematiche, le tecniche e gli stili narrativi – storico, realista e verista – adottati da Verga fino a quel momento e che non aveva alcuna intenzione di ripersi. D’altronde bissare il successo con un romanzo migliore era un’impresa di non poco conto e, non è un caso, che l’ultimo romanzo pubblicato in vita da Verga sarà Dal tuo al mio del 1906, in cui riprende le tematiche borghesi che gli avevano dato ampia popolarità.

Negli ultimi anni della sua vita Verga, stanco della vita mondana milanese, si ritirò a Catania per gestire meglio i possedimenti di famiglia e dedicarsi alla scrittura con maggiore tranquillità. In questo periodo adotterà i nipoti e intratterrà una relazione importante con la contessa Dina di Sordevolo continuando con coerenza e determinazione a non legarsi troppo con le donne, a manifestare la propria contrarietà al matrimonio e a sostenere tesi scettiche – se non addirittura atee – in campo religioso.

Come autore teatrale Verga ottenne successo con Cavalleria Rusticana, trasposizione di una sua celebre novella, da cui poi Mascagni trarrà l’ancor più celebre opera lirica. In seguito l’autore siciliano avrà una vertenza con il compositore per il riconoscimento dei diritti d’autore, da cui ne risulterà vincitore, ottenendo un compenso di cinquanta tremila lire, che all’epoca era una bella somma.

Negli ultimi anni di vita Verga divenne un frequentatore abituale del Circolo dell’Unione di Catania e in campo politico espresse posizioni sempre più conservatrici e nazionaliste. Già intorno agli anni ’80 aveva manifestato il proprio assenso alla repressione del movimento dei lavoratori dei Fasci Siciliani attuata dal capo del Governo Francesco Crispi e adesso approvava con entusiasmo la politica nazionalista e coloniale in terra africana, guardando con simpatia a Benito Mussolini e al giovane partito fascista.

La sera del 24 gennaio del 1922, di ritorno dal Circolo dell’Unione, Verga rientrò a casa e, dopo aver chiuso a chiave la porta della camera da letto come di consueto, fu colpito da una trombosi da cui non si riprenderà più. Alle otto del mattino del giorno dopo la cameriera, non riuscendo a entrare in camera per svegliare lo scrittore, chiamò i soccorsi, che non poterono fare nulla. Verga rimase agonizzante per tre giorni, senza riprendere conoscenza e, dopo che la famiglia gli diede l’estrema unzione senza obbedire alla sua volontà, morì “alle dieci e venti della mattina del 27[7].

A mio modo di vedere il miglior modo di avvicinare i lettori all’opera di Verga, in particolare gli studenti, è di immergersi nella lettura di Cavalleria rusticana e La lupa. Questi due racconti di amore e vendetta sono brevi e avvincenti e, presentando una prevalenza dei dialoghi sulla prosa ridotta all’osso, sono in linea con la comunicazione essenziale dei social network e potrebbero suscitare l’interesse degli adolescenti in piena tempesta ormonale.

In conclusione a centottant’anni dalla nascita, Verga con le sue novelle e i suoi romanzi si conferma come il cantastorie italiano capace di cogliere le contraddizioni, gli aneliti e le disfatte delle classi sociali italiane in lotta tra tradizione e progresso nella speranza impossibile di una vita migliore.

Roberto Cavallaro                  

 


[1] Per la data e il luogo di nascita ho deciso non tener conto da quanto riferito da Wikipedia, ma da quanto riporta lo studioso Piero Nardi in Giovanni Verga, I Malavoglia, in Vita di Giovanni Verga, a cura di Piero Nardi, Edizioni Scolastiche Mondadori, Milano, 1972.   

[4] Ibidem.

[5] Giovanni Verga, I Malavoglia, in Vita di Giovanni Verga, a cura di Piero Nardi, Edizioni Scolastiche Mondadori, Milano, 1972, p. 42.  

[6] Giovanni Verga, I Malavoglia, op. cit., pp. 190-191. 

[7] [7] Giovanni Verga, I Malavoglia, in Vita di Giovanni Verga, a cura di Piero Nardi, op. cit., p. 45.