Paura, o non paura, questo è il coronavirus!

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Fin dall’antichità la paura è stata fonte di disordine e nei momenti di crisi si è sempre temuto che potesse portare a una diffusione della violenza tale da mettere a rischio l’esistenza stessa della società politica.

Se consideriamo lo studio delle società primitive realizzato da antropologi come Franz Boas (L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl, 1897), Bronislav Malinowski (Argonauti del Pacifico Occidentale, 1922), Marcel Mauss (Il sacrificio, 1899; Saggio sul dono,1923) e René Girard (La violenza e il sacro, 1972) comprendiamo come istituzioni politiche quali il dono e il sacrificio servissero a garantire la sopravvivenza e il consolidamento della società stessa.

Nello studio comparativo sul potlàc dei Kwakiutl nordamericani analizzati da Boas e il kula delle popolazioni melanesiane studiate da Malinowski, Mauss definisce il dono come un fatto sociale totale.

Il dono è infatti quella forma di scambio precedente al baratto e alla moneta fondata sulla reciprocità. Nelle società primitive il dono non è una pratica disinteressata, poiché crea in chi lo riceve un obbligo a contraccambiare se non vuole essere disonorato e scomunicato dalla comunità. Pertanto il dono crea una socialità obbligatoria e rinsalda i legami sociali all’interno della tribù. Colui che ha ricevuto il dono non deve contraccambiare immediatamente, ma prima o poi dovrà farlo, non solo se non vuole essere scomunicato ed esiliato – nell’ipotesi migliore – ma anche perché gli oggetti sono dotati di un’anima, detta mana, che accresce la propria potenza e genera il rischio della violenza all’interno della comunità finché il dono non viene contraccambiato.

Il riferimento a queste società politiche non ci deve far incorrere nell’errore di ritenerle barbare e irrazionali e che non abbiano nulla da insegnarci. Inoltre, come rileva Mauss, la concezione della gratuità del dono va attribuita al Codice Giustiniano del tardo Impero Romano e alla diffusione del cristianesimo e pertanto non è stato sempre così e soprattutto non in tutte le culture.

Seppur non più in questi termini anche noi attribuiamo un valore sacro agli oggetti e nel periodo del lockdown abbiamo provato la paura di non poter più svolgere quei riti, come ad esempio prendersi un caffè al bar con l’amico o l’amica, in cui gli oggetti si intrecciano all’abitudine e alla socialità e di cui, giustamente, non possiamo farne a meno.

Tuttavia oggetti come libri, strumenti audio dal giradischi alle applicazioni musicali e strumenti audiovisivi come le Smart Tv, i computer, le console di videogiochi e gli smartphone e i tablet con le loro app di messaggistica e i social network e la possibilità di coltivare nelle mura domestiche passioni, come ad esempio la musica e il disegno, sono stati utili per combattere il senso di solitudine e la paura del contagio. La tecnologia infatti ci ha permesso di sentirci meno soli e perfino le bistrate console di videogiochi non sono da condannare, poiché hanno permesso ai giovani di restare in contatto con gli amici sfidandosi in rete ed evitando quella che il sociologo Émile Durkheim definisce anomia sociale, vale a dire quell’assenza di norme sociali e norme morali che regolano entro limiti appropriati il comportamento degli individui. Durkheim teorizza questo concetto nel saggio Il suicidio (1897) notando come negli Stati dove l’anomia è più presente ci sia un aumento del tasso di suicidio, mentre negli Stati dove prevale la solidarietà sociale il tasso di suicidio diminuisca.

Il caso di Messina del signore anziano che ha sparato alla titolare di un tabacchino di Provinciale e che poi si è suicidato perché impossibilitato a scommettere a causa delle misure coronavirus valorizza la teoria di Durkheim. La sua impossibilità a soddisfare il bisogno di scommettere e non avere altri interessi sostitutivi gli ha suscitato una paura incontrollabile che l’ha condotto a una violenza inaudita che si è risolta con la morte.

Tra gli scienziati sociali che meglio hanno compreso il rapporto tra la violenza e il sacrificio non si può non ricordare René Girard che nell’opera La violenza e il sacro ha evidenziato come la violenza scaturita dal desiderio mimetico, vale a dire tutti desiderano ciò che hanno o desiderano gli altri, abbia generato il sacro (inteso come proiezione della violenza) e il sacrificio, che è quella istituzione all’origine delle società umane. Il sacrificio animale o umano lo rintraccia tanto nelle società primitive studiate dagli antropologi quanto nei testi sacri come la Bibbia e in quelli letterari: dai tragici greci come Euripide e Sofocle fino a scrittori moderni come Shakespeare (Troilo e Cressida è tra le opere menzionate) e Dostoevskij (Il sosia).                      

Il sacrificio è inteso da Girard come quell’istituzione politica che permette agli uomini di canalizzare la violenza verso un capro espiatorio al fine di eliminare la violenza e istituire o consolidare il vincolo sociale. Durante il sacrificio vengono scelti l’assassinio sacrificale e la vittima sacrificale, quest’ultima non è l’autore della violenza ma un sostituto sacrificale che farà da capro espiatorio. La scelta di sacrificare il capro espiatorio era dovuta al fatto che se si fosse sacrificato il colpevole ci sarebbe stato un contagio ravvicinato e non mediato, con il risultato che la violenza sarebbe raddoppiata mettendo in crisi l’esistenza della società.

Per questo motivo gli aztechi praticavano il sacrificio umano e i coloni spagnoli incapaci di relativismo non riuscivano a capire che per loro era un’istituzione politica a fondamento del loro ordinamento sociale. Per loro un’istituzione che noi moralmente non approveremmo era garanzia di libertà e sicurezza e avrebbero continuato a vivere secondo i loro costumi senza morire per epidemia e trasformarsi a causa dell’evangelizzazione. Sarebbe come ostinarsi a pensare che le dottrine filosofiche di Platone e Aristotele potessero applicarsi al di fuori delle polis greche. Per loro ad esempio la Persia rappresentava la peggiore delle tirannidi e nessun persiano, neanche il più sapiente, poteva lontanamente avere concezione del bene per il semplice fatto che non fosse greco.

Platone poteva pensare che Dionigi il tiranno di Siracusa potesse aspirare a essere un governante filosofo, rimanendone deluso, ma di certo non poteva pensare che quel monarca dispotico zoroastriano e fratricida di Artaserse II di Persia potesse essere capace di buon governo.

Il sacrificio come istituzione politica che espelle la paura e la violenza dalla comunità per garantire la sopravvivenza e il consolidamento dell’ordinamento politico e sociale lo rintracciamo anche in tribù tuttora esistenti come i Ciukci (la tribù siberiana più imparentata a livello genetico con gli Indiani d’America) studiati dall’antropologo esperto di tribù indiane nordamericane Robert Lowie (Primitive Society, 1920) e gli amazzonici Kaingang studiati dall’americano Jules Henry (Jungle People, 1941).

Nei Ciukci il sacrificio ha una funzione di violenza preventiva. Quando attaccano e uccidono un membro di una tribù rivale loro non consegnano al nemico l’autore dell’omicidio, ma scelgono di sacrificare loro stessi un membro della loro tribù per impedire l’atto di rappresaglia e realizzare la pacificazione tanto interna quanto esterna. In questo modo si ha una sorta di pareggio dei conti senza ulteriore spargimento di sangue e tutto torna come prima.

Nei Kainkang il sacrificio assume le forme di un suicidio collettivo, una sorta di guerra di tutti contro tutti alla Thomas Hobbes (Leviatano, 1651), quando la violenza è stata causata da un soggetto esterno alla comunità di appartenenza e soltanto la ripresentazione dell’altro, non necessariamente lo stesso soggetto autore della violenza, può porre fine alla violenza indiscriminata. Per i Kainkang altro è tutto ciò che è esterno alla tribù e possono essere tanto gli oggetti quanto le persone. Quest’ultime possono essere tanto gli appartenenti a un’altra tribù Kainkang, anche qualora ci siano legami di parentela, tanto persone di un’altra etnia come i brasiliani. Se per esempio si ha un caso di adulterio, il reato viene risolto pacificamente se è stato commesso dal padre, fratello, zio o altro membro facente parte della tribù, ma se è stato commesso da un brasiliano come ad esempio l’ex calciatore neroazzurro Luis Nazario da Lima detto Ronaldo loro impazziscono e cominciano a uccidersi e soltanto l’apparizione di un altro soggetto estraneo alla comunità, ad esempio l’ex calciatore brasiliano dell’Inter Adriano, pone fine alla follia omicida e i Kainkang continuano a sopravvivere come tribù.

Lo sviluppo del pensiero filosofico liberale ha fatto sì, per fortuna, che la maggior parte dei paesi democratici fondassero i propri ordinamenti giuridici sul principio di laicità, che bisogna intendere come religione civile, e l’affermazione dei diritti dell’uomo ha portato in molti Stati all’abolizione della pena di morte e alla concezione di una giustizia fondata sull’equità, sulla solidarietà e sulla redistribuzione. Si pensi ad esempio al principio di solidarietà intergenerazionale a fondamento della giustizia redistributiva sancito dalla Corte Costituzionale italiana con la sentenza n. 173 del 2016[1].

A mio modo di vedere se consideriamo concetti propri dello strutturalismo come anomia e fatto sociale concedendo un’apertura a elementi psicologici propri di Girard (che non è uno strutturalista), quali ad esempio desiderio mimetico e violenza mimetica, si possono comprendere i fenomeni sociali e i casi concreti più disparati come ad esempio l’omicidio di Lorena Quaranta avvenuto in pieno lockdown. Il fidanzato reo confesso Antonio de Pace ha dichiarato al PM che ha ucciso la fidanzata perché temeva di essere stato contagiato dal coronavirus, ma l’indagine ha confermato come ci fossero motivi personali oscuri. Questo è uno di quei casi interessanti dove la società influenza l’individuo in cui allo stesso tempo elementi psicologici accrescono la paura e determinano un’esplosione della violenza che conduce alla morte. Al momento dell’arresto il ventottenne vibonese ha dichiarato che la causa scatenante l’omicidio è stata l’ansia provocata dalla situazione generale legata al coronavirus[2] e di ritenere di essere stato contagiato[3] (fatto sociale), ma il giudice nel condannarlo considera gli elementi psicologi poiché De Pace è stato riconosciuto colpevole “di omicidio volontario aggravato dai futili e abbietti motivi e dalla circostanza di aver agito contro la convivente”[4].

È stato appurato poi come il colpevole dopo aver picchiato, accoltellato e strangolato a morte l’ex fidanzata abbia tentato il suicidio e una volta che la notizia della morte di Lorena è stata data dai mass media, De Pace sia stato bombardato sui social network di messaggi di violenza verbale in cui gli si augurava la castrazione e la morte[5]. Ci troviamo così in un caso in cui il desiderio mimetico, inteso da Girard come desiderio di essere l’altro o di avere l’oggetto desiderato attraverso un modello che funge da mediatore, provoca un contagio mimetico della violenza. De Pace desidera restare in salute e l’amore, oggetti desiderati anche da Lorena, ma futili e abietti motivi suscitano in lui la paura di perderli entrambi e lo inducono a uccidere Lorena che ritiene la causa della sua perdita; a questo punto tutti noi ci identifichiamo giustamente con Lorena ma, mentre la maggior parte di noi si sono limitati a biasimare e condannare l’atto, alcuni del popolo dei social network sono stati contagiati dalla violenza e si sono lasciati trasportare dalla rabbia. Per fortuna l’esistenza delle leggi, che vietano l’accesso all’oggetto che ha dato origine alla violenza, fa sì che tutto venga risolto all’interno della legalità e che quel criminale di De Pace possa scontare la condanna comminatagli.

L’idea che noi desideriamo quello che desiderano gli altri Girard l’ha elaborata in un saggio di critica letteraria dal titolo Menzogna romantica e verità romanzesca (1961) analizzando alcuni capolavori del romanzo moderno dal Don Chisciotte di Cervantes a I demoni di Dostoevskij.

Per esempio Don Chisciotte desidera la vita di cavaliere errante che di volta in volta gli suggerisce il suo eroe romanzesco Amadigi di Gaula. Chisciotte legge e rilegge con fervore il romanzo cavalleresco spagnolo di Garci Rodriguez de Montalvo e le avventure che vive con Sancho Panza, anche quella famosa della lotta contro i mulini al vento, sono dettate dal fatto che lui vuole essere alla stregua del suo eroe.

Il visionario Chisciotte e il realista Sancho hanno una visione completamente diversa della realtà e in un passo del capitolo XVIII il cavaliere errante l’attribuisce alla paura del suo scudiero:

– Signor padrone, che il diavolo mi porti, se si vede né un uomo, né un gigante, né un cavaliere di tutti quelli che dice lei. Io per lo meno non ne vedo neanche uno.

Che sia effetto d’incanti come i fantasmi di stanotte?

–   Che dici mai? – riprese Don Chisciotte – non senti il nitrito dei cavalli, il suono dei pifferi, il rullo dei tamburi?

–  Io sento solamente molte pecore e molti montoni che belano.

Ed era proprio la verità, perché i due greggi erano già vicini.

– La paura che hai – replicò Don Chisciotte – non ti fa né vedere né sentire bene. Uno degli effetti della paura infatti è quello di turbare i sensi, e di far che le cose non appaiano come sono; ma se hai tanta paura, ritirati da una parte e lasciami solo, che io solo basto a dar vittoria alla parte a cui porterò aiuto[6].

In I demoni Dostoevskij nell’affermare la dignità e sacralità della vita umana racconta le vicissitudini di un gruppo di rivoluzionari nichilisti russi intenti attraverso una serie di attentati terroristici a rovesciare lo Stato zarista per instaurare un regime fondato sul terrore in cui possano trovare spazio gli ideali libertari e nichilisti.

Tra i personaggi del romanzo merita particolare attenzione il nichilista Kirillov che, rinchiuso nella casa di Filippov in cui sta in affitto in una sorta di autoisolamento, decide come un capro espiatorio di firmare la confessione redatta anticipatamente da Pëtr Stepanovič Verchovenskij per assumersi la colpa dei delitti non commessi di Šatov e Fëdka e, attraverso il suicidio, asserire il principio che siccome Dio non esiste ciascun uomo è dio e, dal momento che l’attributo della divinità è il libero arbitrio e lui l’ha scoperto, con la sua morte potrà affermare la propria rivolta e permettere agli uomini di vivere in un mondo libero senza Dio.

Per tre anni ho cercato l’attributo della mia divinità e l’ho trovato: l’attributo della mia divinità è il Libero Arbitrio! È tutto ciò con cui io posso dimostrare il punto supremo della mia rivolta e la mia nuova paurosa libertà. Poiché essa è assai paurosa. Io mi uccido per affermare la rivolta e la mia nuova paurosa libertà[7].

Kirillov, sostiene Girard, è arrivato a questa idea tramite Stavrogin, il protagonista del romanzo, che funge da mediatore per aspirare a essere nulla. In effetti anche Stavrogin si suiciderà ma per motivi diversi: per il dissidio insolubile tra il senso di colpa dei delitti commessi e l’incapacità di accettare alcuna redenzione. Subito dopo il suicidio la madre Varvara Petrovna e Darja Pavlovna troveranno il seguente biglietto:

Non accusar nessuno. Io stesso[8].   

 Alla fine non ci resta che accogliere il messaggio positivo dello scrittore fallito Stepan Trofimovič Verchovenskij, padre assente di Pëtr, che in punto di morte sosterrà la dignità e sacralità della vita umana a prescindere da qualsiasi ideale in cui si creda.

A tal proposito non possiamo non ricordare L’uomo in rivolta (1951) di Albert Camus in cui il grande filosofo e romanziere esistenzialista afferma che l’unica rivolta che possa porre termine all’assurdo è quella fondata sul pensiero meridiano, vale a dire quel criterio che permette all’insorto di affermare una libertà relativa che trovi il proprio limite nella dignità della vita umana. Con il mi rivolto dunque siamo l’uomo in rivolta mostra la misura e il limite alla natura umana. Tanto la non violenza assoluta quanto la violenza sistematica delle ideologie (rivoluzione francese, comunismo e fascismo) negano la rivolta. La prima consegna l’uomo alla servitù e all’accettazione delle ingiustizie, mentre l’ideologia ponendo un valore al di sopra della vita umana “distrugge positivamente la comunità vivente e l’essere che ne riceviamo”[9]. L’insorto è un uomo inquieto che non trova pace perché “sa il bene e fa il male”[10]. La rivolta per mantenersi deve rifiutare l’omicidio e scegliere il libero dialogo.

La virtù dell’insorto risiede nel difendere la vita, la solidarietà umana, la giustizia e la libertà senza cedere all’omicidio. Tuttavia ne è tentato e nel caso in cui dovesse uccidere deve acconsentire alla propria morte come fece il rivoluzionario russo Kaliayev, che nell’uccidere il granduca Sergej Romanov nell’attentato del 15 febbraio 1905 è andato serenamente incontro alla propria condanna a morte il 23 maggio del medesimo anno. Camus afferma che Kaliayev ha rivelato agli uomini dove inizia e termina la rivolta. Nell’attuare l’attentato ai danni del granduca il rivoluzionario si assicurò che fosse da solo in carrozza e non in compagnia della moglie e dei nipoti come avvenne nel tentativo del 15 febbraio. Quella volta Kaliayev alla vista della granduchessa Elizaveta Fëdorovna e soprattutto dei bambini Marija Pavlovna e Dmitrij Pavlovič decise di non eseguire l’attentato in quanto vittime innocenti. Nell’essersi assegnato questo limite Camus ha riconosciuto in Kaliayev il primo rivoluzionario ad avere riconosciuto il valore della vita umana nella sua dignità. Inoltre il rivoluzionario non ha mai negato la propria responsabilità personale.

La vicenda di Kaliayev è stata rappresentata superbamente da Camus nella tragedia I giusti (1949). In particolare nell’atto quarto lo scrittore algerino è riuscito a dare dignità letteraria alla celebre conversazione avvenuta in prigione, prima dell’esecuzione, tra Kaliayev e la granduchessa Elizaveta Fëdorovna:

LA GRANDUCHESSA. Non c’è amore lontano da Dio.

KALIAYEV. Sì, l’amore per le creature.

LA GRANDUCHESSA. Le creature sono abbiette. Che si può fare altro se non annientarle o perdonarle?

KALIAYE. Morire con loro.

LA GRANDUCHESSA. Si muore soli. È morto solo, lui.

KALIAYEV (con disperazione). Morire con loro! Oggi quelli che si amano devono morire insieme per essere riuniti. L’ingiustizia separa, la vergogna, il dolore, il male che si fa agli altri, il crimine separano. Vivere è una tortura poiché vivere separa…[11]   

Nelle parole di Camus risuonano le parole della poesia Il sogno della vita dello stesso Kaliayev:

Un istante, e la vita se ne va

Un sogno così triste e molesto

Si spegne in un'ombra vaga, distante

Come il ronzio della sera, nel silenzio.

Semplicemente, scivola il velo dagli occhi
Negli anni dell'adolescenza
Un istante, e niente più favole
Agghindate di tinte smaglianti

Appena un po' più in là del sogno,
Tutto riappare in un attimo,
La vita vissuta nel tormento
E il volto di una gioia lontana.

Noi, derubati fin dall'infanzia,
Figli bastardi della vita orba:
Cosa abbiamo ricevuto in eredità?
Vendetta e dolore, e sì, la muta vergogna...

Cosa possiamo dare al popolo,
A parte libri, tediosi e intelligenti,
Per aiutarlo a trovare la libertà?
Solo un istante della nostra vita...[12]

Una concezione differente della violenza è espressa dalla filosofa esistenzialista Hannah Arendt, che nel saggio Sulla violenza (1970) sostiene che la violenza e il potere siano fenomeni distinti che tuttavia appaiono insieme. Il potere si fonda sul consenso del popolo e non sulla violenza o il comando e quando è presente costituisce il fattore primario e predominante e pertanto ha la meglio sulla violenza. Questa ha invece carattere strumentale e per potersi realizzare ha bisogno di una guida, della forza umana e della giustificazione del fine che si è posto. Per Hannah Arendt la violenza deve terminare quando prende il potere altrimenti si trasforma in terrore, che è quella forma di governo che si instaura quando la violenza non abdica dopo aver destituito il potere costituito e rimane in una posizione di controllo.

A mio parere questa concezione del rapporto violenza-potere la rintracciamo nella storia nelle vicende degli strateghi ateniesi Pericle e Alcibiade e in letteratura nel dittico romanzesco dello scrittore argentino Roberto Arlt costituito da I sette pazzi (1929) e I lanciafiamme (1931).

Nell’orazione funebre ai soldati ateniesi caduti nella Guerra del Peloponneso contro gli spartani lo storico Tucidide nel Libro II della Guerra del Peloponneso nel trascrivere il discorso dello stratego Pericle mette in rilievo come è vero che la legge ad Atene sia sovrana, garantisca la tutela dell’offeso e sia rafforzata dalle leggi non scritte fondate sul sentimento comune. Ciò perché c’è il consenso alla forma di governo democratica che ha permesso agli ateniesi la più grande libertà, data dalla possibilità integrare la cura degli affari privati (lavoro, affetti, svago) alla partecipazione alla vita politica.

Certo, si potrebbe obiettare che le continue crisi di potere di quegli anni che hanno portato al passaggio dalla democrazia all’oligarchia (governo dei quattrocento, governo dei cinquemila e governo dei trenta tiranni) smentiscano il pensiero di Hannah Arendt. In realtà non è così. I cambiamenti di potere non sono avvenuti perché non si credeva nella sovranità della legge ma perché a causa delle ingerenze esterne di spartani e persiani e al variare degli interessi economici è cambiato il consenso a fondamento del potere, determinando così una forma di governo o l’altra.

Le vicende di Alcibiade ci illuminano sull’argomento. Il fatto che lo stratega ateniese identificasse il bene pubblico ateniese con il suo interesse personale lo rende spregiudicato e traditore, ma non un cittadino che non riconoscesse la sovranità della legge.

Il caso della spedizione siciliana è emblematico. Nei giorni preparativi alla partenza qualcuno aveva mutilato le Erme, le statue di Ermes agli incroci delle strade, e si sparse la voce che l’autore dell’atto vandalico fosse Alcibiade. Il motivo era che l’assemblea aveva assegnato il comando della spedizione a Nicia e non a Alcibiade, con grande delusione dello stratego che a differenza dell’altro fin dall’inizio dei lavori si era battuto per sostenere la richiesta di aiuto di Segesta, in guerra contro Siracusa, per accrescere la potenza di Atene.

All’epoca abbattere statue non era cosa da poco e in particolare quelle sacre. La mutilazione delle Erme fu interpretata dalla popolazione come un gesto di cattivo auspicio che avrebbe fatto fallire la missione e nacque un caso giudiziario.

Plutarco nelle Vite Parallele sostiene che Androcle aveva procurato dei falsi testimoni per accusare lo stratego e i suoi amici di profanazione sacra dei Misteri Eleusini. Alcibiade, temendo un rafforzamento degli avversari, si dichiarò favorevole a un rapido processo pur sapendo che rischiava la condanna a morte. L’assemblea invece votò per processare l’accusato al ritorno dalla spedizione. L’assenza di Alcibiade favorì la fazione avversaria come temeva lo stratego, il quale quando arrivò con la sua flotta a Catania venne fermato dalla trireme ateniese Salaminia. Alcibiade promise agli araldi di seguirli fino ad Atene con la sua nave, ma ne approfittò per fuggire a Thurii (presumibilmente l’odierna Rossano Calabro). A questo punto l’assemblea dichiarò lo stratego colpevole in contumacia, lo condannò a morte, gli confiscò tutte le proprietà e venne messa una taglia a chi avesse ucciso qualcuno dei latitanti.

Allora Alcibiade cominciò a tremare contro Atene, fornendo informazioni strategiche agli amici dei siracusani su come difendere Messina e impedendo agli ateniesi di conquistare la città. Durante la battaglia per la conquista della città dello Stretto Lamaco trovò la morte e con l’assegnazione del comando delle truppe a Nicia la spedizione ateniese andò di male in peggio.

In seguito durante il suo esilio autoinflittasi Alcibiade tramò contro Atene stringendo alleanze con spartani e persiani. In uno dei discorsi sofistici fatti agli spartani, Tucidide racconta nel saggio storico già citato in precedenza, Alcibiade afferma che va contro la sua patria perché non si sente sicuro come cittadino. Il suo rifiuto a consegnarsi ad Atene è dovuto al fatto che non si riconosce più nell’attuale governo, non nella legge, e che per amor di patria è disposto a tutto per rovesciarlo in modo da poter continuare a vivere come cittadino.

Alcibiade riuscirà a rientrare ad Atene nel 407 a.C., dopo la rielezione a stratego e aver permesso agli ateniesi di vincere nelle battaglie navali di Abido e Cizico (410 a.C.). Al momento del suo rientro in patria ad Atene era tornata la democrazia. Alcibiade riuscì a riottenere le proprie proprietà e a ottenere la cancellazione dei processi giudiziari contro di lui. Riuscendo a convincere l’assemblea del suo pentimento dovette limitarsi a scontare come pena la conduzione della processione eleusina per convincere la popolazione della sincerità del suo pentimento.

Alcibiade rientrò però a Atene nel giorno della festa della Plinteria, il giorno più sfortunato dell’anno per gli ateniesi al punto che in quella data sarebbe stato opportuno che non accadesse niente di rilevante. Quel giorno effettivamente si rivelerà infausto per lo stratego. La sconfitta della flotta navale ateniese nella battaglia di Nozio farà cadere Alcibiade in disgrazia e i suoi nemici, riuscendo a convincere l’assemblea a revocargli la carica militare che tanto lo aveva distinto, non gli lasciarono altra scelta di andare nuovamente in esilio. Il risultato sarà la sconfitta degli ateniesi nella guerra del Peloponneso e l’uccisione dello stratega in Frigia avvenuti entrambi nel 404 a.C.[13]

La riflessione di Hannah Arendt trova conferma, come ho già menzionato in precedenza, nei romanzi I sette pazzi e I lanciafiamme dello scrittore argentino Roberto Arlt. In questo dittico romanzesco di una genialità fuori dal comune, rilanciato in Italia da Sur edizioni, il protagonista Remo Erdosain è un inventore fallito che vuole realizzare fiori metallizzati e ha derubato la ditta in cui lavora come esattore. Erdosain non accetta le ingiustizie ma al contempo la frustrazione, causata dal fatto che svolge un lavoro che non lo soddisfa, e l’ansia di umiliazione lo spingono a tradire la moglie Elsa con prostitute e ragazzine ingenue alla ricerca dell’amore puro fino ad aderire al progetto rivoluzionario della società segreta dell’Astrologo, che intende rovesciare il potere attraverso la gestione di una catena di bordelli. L’Astrologo intende utilizzare ideologie differenti e popolari come fascismo, comunismo e anarchismo per coinvolgere nel suo progetto insurrezionale tanto i militari quanto i cittadini comuni delusi e frustrati dal mancato riconoscimento del proprio talento, come Erdosain, in modo tale da dimostrare il fallimento dello Stato borghese e capitalista e affermare la verità della menzogna.

Su questo poggia la parte più grande della teoria dell’Astrologo: gli uomini possono venir scossi solo con le menzogne. Lui dà al falso la consistenza del vero; persone che non si sarebbero mai mosse per raggiungere nulla, gente disfatta da ogni tipo di disillusione, resuscitano nella verità delle sue menzogne. Lei, forse, vuole qualcosa di più grande? […] «Ecco: proprio questo. Il fatto è che a noi manca il coraggio di compiere imprese enormi. Ci immaginiamo che l’amministrazione di uno stato sia più complicata di quella di una casa modesta e nei fatti che accadono mettiamo un eccesso di romanzesco, di romanticismo idiota»[14].

Per l’Astrologo Erdosain è fondamentale per il successo del progetto rivoluzionario perché, grazie ai suoi studi di chimica volti a realizzare delle rose di metallo che non perdessero il loro colore naturale, può installare delle fabbriche di fosgene, gas mortale fondamentale per il successo della rivoluzione. Altre figure memorabili come il magnaccio Ruffiano Melanconico, Bomberg l’Uomo che vide la Levatrice, il Cercatore d’Oro e la prostituta Hipólita la zoppa svolgeranno un ruolo fondamentale negli schemi dell’Astrologo, la cui castrazione è pari al disprezzo e all’insoddisfazione per la realtà. La violenza diventa così inevitabile e conferma la teoria espressa da Arendt di come essa sia l’opposto del potere e quando diventa prevalente significa che il potere sta per svanire.

Per concludere vorrei mettere in evidenza come in questi mesi di lockdown e crisi economica forme economiche come la redistribuzione (sussidi e bonus statali di aiuto al reddito) e la reciprocità (donazioni alla ricerca per il coronavirus, donazioni di cibo al personale sanitario, voucher e buoni acquisto) si siano rivelate degli antidoti alla paura della gente in difficoltà economica di sentirsi abbandonati e lasciati al proprio destino. Queste modalità di scambio integrate all’economia di mercato hanno riportato di attualità la riflessione dell’economista e antropologo Karl Polanyi, il quale in La grande trasformazione (1944) afferma che la redistribuzione si ha quando c’è un centro politico capace di raccogliere le risorse e di distribuirle alla collettività mentre la reciprocità è quella forma di scambio determinata da fattori extraeconomici e la si rintraccia all’interno della famiglia.

In realtà il lockdown ha rivelato, in certi casi, che gli individui siano capaci di gesti altruisti e solidari al di là del contesto familiare e senza che ci sia un ritorno economico poiché, visto le difficoltà che attraversano tutti, il semplice fatto di fare del bene aiuta a stare meglio e a sconfiggere la paura.                            

Roberto Cavallaro        


[6] Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, in Famiglia Cristina edizioni San Paolo vol. 1,, trad. it. di Ferdinando Carlesi, Mondadori (su licenza di), Milano, 1995, p. 146.  

[7] Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I demoni, trad. it. di Rinaldo Küfferle, Mondadori, Milano, 2016, p. 759. 

[8] Ivi, p. 828.

[9] Albert Camus, L’uomo in rivolta, trad. it. di L. Magrini, Bompiani, Milano, 2010, p. 318.

[10] Ivi, p. 312.

[11] Albert Camus, I giusti, in Tutto il teatro, trad. it. di François Ousset, Bompiani, Milano, 2003.

[14] Roberto Arlt, I sette pazzi, trad. it. di Luigi Pellisari, Edizioni SUR, Roma, 2015, pp. 204-205.