Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande Guerra - Vincenzo D'Aquila

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Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande Guerra è un memoir sulla Prima Guerra Mondiale di Vincenzo D’Aquila, un italoamericano che nel 1915 partecipò come volontario al conflitto bellico nelle fila dell’esercito italiano per poi diventare nel pieno della guerra un pacifista convinto e ciò gli causerà non pochi problemi.

Il memoir è stato pubblicato negli USA nel 1931 con il titolo Bodyguard Unseen. A true autobiography, ma soltanto nell’aprile di quest’anno l’opera è stata pubblicata in italiano da Donzelli editore grazie all’operato del messinese Claudio Staiti, dottorando di ricerca di Storia contemporanea all’Università di Messina, che ha tradotto e curato il memoir di D’Aquila con perizia e acume come dimostrano, non soltanto le note esplicative, ma anche l’introduzione, l’appendice contenente i documenti storiografici relativi all’esperienza bellica e sanitaria di Vincenzo D’Aquila e la prefazione dello storico Emilio Franzina, uno dei massimi esperti sulla Grande Guerra.

La partecipazione degli emigranti italiani alla Prima Guerra Mondiale non fu ininfluente. Come rileva Franzina nella prefazione ci furono 100.000 soldati italoamericani che parteciparono attivamente alle operazioni belliche, 300.000 italoamericani furono impiegati dall’esercito statunitense senza mai raggiungere il fronte, 100.000 furono gli emigranti italiani provenienti dagli altri Stati del Nord d’America, 150.000 i soldati di origine italiana provenienti dai vari paesi europei e poco meno di 50.000 provenienti dal Sudamerica: come ad esempio l’italo-brasiliano di origini venete Olyntho Sanmartin che nel 1955, vale a dire quarant’anni dopo la pubblicazione del libro di D’Aquila, scrisse un memoir sulla sua partecipazione al primo conflitto bellico dal titolo Escola da morte.

Vincenzo D’Aquila scrisse le sue memorie agli inizi degli anni 30’, sfruttando l’onda della narrativa di guerra che ebbe il suo anno di gloria nel 1929, con la pubblicazione di romanzi autobiografici che hanno fatto la storia della letteratura come Addio alle armi di Ernest Hemingway e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Rainer Maria Remarque.

Il memoir è fondamentale per capire non soltanto la vita in trincea, ma anche la società italiana e il funzionamento degli ospedali psichiatrici in Italia tra il 1915 e il 1918.

Partito come volontario agli inizi di luglio del 1915 da New York con il piroscafo San Guglielmo, dopo aver letto un annuncio del consolato in un giornale italoamericano in cui si invitava gli italiani d’America ad arruolarsi nell’esercito italiano (l’Italia era entrata in guerra a fianco dell’Intesa nel maggio del 15’) per la gloria e la salvezza della Patria, l’autore s’imbarcò animato dal desiderio di servire il proprio paese (Vincenzo D’Aquila era nato a Palermo il 19 settembre 1892) ma anche da un non secondario spirito d’avventura scaturito dalle letture che lo avevano influenzato nell’infanzia.

Sbarcati a Napoli l’autore e gli altri volontari italoamericani si aspettavano di essere accolti come eroi dalla popolazione, ma il loro arrivo passerà in sordina come anche l’accoglienza di lì a qualche giorno a Palermo. Vincenzo D’Aquila viene assegnato al reggimento di Piacenza dove giungerà l’8 agosto del 1915. Durante il faticoso viaggio in treno passerà da Messina.

Fu colpito negativamente dal fatto che ben poco fosse stato fatto per ricostruire la città dalle macerie del terremoto del 1908 la quale, come afferma l’autore, “si stava ricostruendo senza fretta, o, potrei dire, con massima cura”. La stazione era formata da una baracca e ciò che gli rimase in presso della città fu più il pasto a base di pesce in una taverna in mezzo alle rovine che “la sua cadente bellezza”. Dopo aver fatto un viaggio estenuante l’accoglienza riservata ai volontari italoamericani dai soldati di stanza a Piacenza non fu delle migliori. Furono accusati di essere degli stolti che avevano abbandonato le loro “pacifiche occupazioni nel Nuovo mondo” per una guerra folle che, forse, senza la loro presenza sarebbe terminata prima.

Durante il soggiorno piacentino è interessante la riflessione che fa l’autore sull’evoluzione dei costumi e del ruolo della donna negli anni del primo conflitto bellico e che trova conferma nella storiografia ufficiale.

Infatti dovendo partire per il fronte, gli uomini dovettero abbandonare le loro occupazioni – come ad esempio quelle nelle fabbriche – e furono sostituiti dalle donne che, non dovendo più sottostare al giogo dell’uomo, acquisirono, non soltanto un aumento della retribuzione economica, ma anche una maggiore libertà nello stile di vita e nei costumi come anche una maggiore consapevolezza dei propri diritti e del ruolo della donna nella società.

Una volta giunto al fronte Vincenzo D’Aquila mutò la propria convinzione riguardo la guerra e divenne un convinto pacifista e promotore della non violenza. Durante le operazioni evitava di uccidere, sparando alle stelle per adempiere alla sua “chimerica promessa” finché, un giorno, approfittò del posto vacante di dattilografo di un ufficiale per poter stare lontano dalle linee di guerra e non venire meno al suo intento.

Convinto di avere una sorta di Potere Divino che lo guidava nel suo proposito pacifista e non violento, Vincenzo D’Aquila riuscirà a farsi inserire nella lista dei malati durante il Natale del 1915. Il problema è che malato lo diventerà veramente. Dopo aver bevuto inconsapevolmente del latte rancido, che aveva acquistato da un malato che desiderava fumarsi una sigaretta, l’autore si beccherà la febbre tifoide cerebrale che lo porterà a un breve periodo di delirio. Internato dapprima all’ospedale psichiatrico di Udine e poi a quello di Siena, all’epoca uno dei centri di psichiatria più all’avanguardia in Italia, D’Aquila metterà in atto il proprio pacifismo e, al contrario dei medici, - in base a quello che dichiara - riuscirà a farsi ascoltare dai veri malati e, con il dialogo e l’ascolto, a risolvere casi considerati irreversibili dagli specialisti.

Ad esempio, D’Aquila racconta del caso di un vicino di letto che aveva la fobia della sporcizia causata dallo shell shock. Ogni dieci minuti l’infermiere gli portava una bacinella di acqua e sapone perché il malato avvertiva il bisogno continuo di lavarsi per togliersi la sporcizia e le pulci che si sentiva addosso, con il risultato che non riusciva praticamente a prendere sonno. Insieme a questo malato ce n’era un altro che aveva la fobia dei vermi e dei pidocchi e ripetutamente si schiacciava il cuscino addosso per poi prendere la pulce con le dita e schiacciarla. D’Aquila afferma che, approfittando di una momentanea assenza del personale, semplicemente guardando fisso negli occhi i due malati e dicendo loro con tono imperativo “Siete limpidi, alzatevi”, lui era riuscito a guarire i due pazzi dalla follia mentre la scienza medica non aveva potuto fare altrettanto.

I medici si convinsero che l’autore del memoir avesse qualche potere ipnotico dovuto alla sua profonda fede religiosa e alle radicate idee pacifiste e non violente e tuttavia, pur sapendo che non fosse per niente pazzo, lo tennero sotto osservazione fino a quando, dopo essersi ribellato al dottore Antonio D’Ormea, direttore del manicomio San Nicolò di Siena, e aver passato tre giorni in cella di isolamento, Vincenzo D’Aquila fu dimesso e, dopo un periodo di licenza di due mesi, ebbe la possibilità di ritornare al proprio reggimento di Piacenza.

Di fatto D’Aquila non tornerà più al fronte riuscendo di volta in volta a ottenere dei periodi di licenza, finché nell’ottobre del 1918 riuscì a imbarcarsi per gli Stati Uniti d’America e apprendere la notizia dell’armistizio.

Il memoir di Vincenzo D’Aquila merita di essere letto perché fa comprendere la crudeltà e l’insensatezza della guerra che, invece, un saggio storico sull’argomento in questione, per quanto dettagliato, magari non lascia trapelare in maniera sufficiente.

Al di là di qualsiasi provvidenzialismo dovuto alla forte fede dell’autore, il libro di D’Aquila effettivamente ci fa comprendere come i soldati erano considerati all’epoca carne da macello ed erano trattati come bestie, mentre il comando militare conduceva una vita praticamente di lusso, bevendo sherry della migliore qualità alla faccia dei loro sottoposti; oppure di soldati che hanno preso la medaglia al valore quando se in realtà si fosse saputo del loro effettivo operato sarebbero stati fucilati seduta stante; o ancora di soldati mutilati o resi realmente pazzi dalla guerra che possiamo conoscere grazie all’astuzia dell’autore di farsi credere pazzo, quando in realtà non lo era, e alla fine affermare - nonostante tutti i nostri piccoli problemi quotidiani e le grandi problematiche economiche, ambientali e di politica interna ed estera che ci affliggono - quanto siamo fortunati a non dover combattere una simile guerra.             


Roberto Cavallaro