Scrivo dunque sono. Libertà e rivendicazione di sé nella diaristica femminile giapponese di epoca Heian.

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Riflessione sulle opere Diario di Murasaki Shikibu, Diario di Izumi Shikibu e Le memorie della dama di Sarashina curate e tradotte da Carolina Negri.

A molti di noi sarà capitato di scrivere un diario nell’infanzia o nell’adolescenza per familiarizzare con la scrittura e annotare la nostra vita e i nostri stati d’animo. A volte magari non avevamo neanche intenzione di sederci a scrivere delle nostre giornate, ma l’insegnante di italiano o di inglese ce lo imponeva come compito da fare a casa e non ci restava altro che sgobbare. Ad esempio io ricordo che quando ho fatto la vacanza studio a Cork l’insegnante neozelandese tifoso degli All Blacks che aveva interpretato un uruk-hai in uno dei film della saga Il Signore degli Anelli di Peter Jackson ci aveva assegnato di tenere un diario in cui dovevamo raccontare le nostre giornate. Non era un compito che facevo molto volentieri, anche perché un po’ per pigrizia e un po’ per paura di mettere a nudo i miei sentimenti utilizzando un inglese mediocre temevo di fare una magra figura di fronte alla classe. A questo punto si potrebbe obiettare che non c’è motivo di avere paura di mettere su carta il proprio vissuto, tanto non è che siamo dinanzi a un genere letterario degno di nota.

Sì, la critica e l’opinione comune hanno spesso derubricato il diario come un genere letterario minore che non merita di essere paragonato alla poesia o al romanzo e — come nota Carolina Negri nell’introduzione a Le memorie della dama di Sarashina   — “neanche il prestigio di illustri diaristi dell’epoca, come André Gide, Paul Valéry e Paul Claudel, riuscì a eliminare del tutto il persistente cliché che considera il diario un genere inferiore, privo delle qualità che ci si aspetta da un’opera letteraria”[1].  Molto importante senza dubbio è il contributo di Virginia Woolf che in A Room of One’s Own del 1929 evidenzia come attraverso la scrittura diaristica le donne abbiano avuto accesso a quella stanza tutta per sé in cui poter affermare la propria libertà, la propria indipendenza e il proprio valore letterario, dando avvio agli studi di genere femministi che hanno considerato “il diario come una forma di scrittura autobiografica, destinata a diventare un’arma per costruire il mondo e la storia delle donne in opposizione alla cultura maschile”[2].

A mio modo di vedere nella seconda metà del XX secolo e nel XXI secolo la scrittura intimistica del diario è stata fatta propria dal romanzo autobiografico — come ad esempio le opere di Annie Ernaux e Karl Ove Knausgård — in cui gli autori rivelano le verità più recondite della loro personalità con una naturalezza e sincerità di cui ritroviamo traccia nella letteratura memorialistica come in Les Confessions di Jean-Jacques Rousseau e in A Moveable Feast di Ernest Hemingway.

Ridurre la scrittura autobiografica a una narrativa di genere è però a mio giudizio quanto di più sbagliato si possa compiere, perché se è vero che le donne hanno trovato in questo tipo di letteratura un modo di uscire dall’anonimato è altrettanto vero che anche gli uomini ne hanno fatto ricorso per mettere a nudo la propria anima.

In tal senso i diari (nikki) della letteratura giapponese dell’epoca Heian (794-1185) sono un genere letterario in cui le donne in primis — e a volte anche gli uomini —   hanno provato ad abbattere i pregiudizi e i vincoli culturali della rigida organizzazione sociale imperiale per creare una letteratura originale e autentica svincolata dalla tradizione cinese.

Le caratteristiche principali di questi diari sono i caratteri kana, “una scrittura fonetica nata dalla semplificazione dei caratteri cinesi”[3], e l’alternanza di prosa e poesia per affrontare “un argomento centrale stabilito dall’autore”[4] mediante l’uso di uno stile intimistico piegato alle leggi temporali della memoria, che non sono lineari ma si piegano allo spazio-tempo dell’interiorità. Questi diari si distinguono da quelli ufficiali di tipo amministrativo che erano scritti in cinese esclusivamente da uomini che ricoprivano importanti incarichi politici.

Sebbene i nikki fossero scritti essenzialmente da donne, tuttavia il suo inventore fu un uomo, Ki no Tsurayuki, che nel 935 scrisse il Diario di Tosa (Tosa Nikki) in cui adottando la voce narrante femminile[5] narra il viaggio di ritorno di un ex governatore di provincia a Kyōto, soffermandosi sul desiderio nostalgico di riprendere la vita mondana della capitale.

Tsurayuki crea un nuovo genere letterario, ma commetteremmo un grande sbaglio se pensassimo che fosse spinto dall’intenzione di liberare la donna dal ruolo di marginalizzazione sociale a cui purtroppo era relegata come figlia, moglie e madre di un uomo. L’incontro tra i due sessi è fatto esclusivamente a proprio vantaggio per affermare la propria grandezza come uomo nella prosa giapponese femminile e ciò si evince dalla predilezione delle poesie scritte da uomini contenute nel Kokinshū (Raccolta di poesie giapponese antiche e moderne, 905 ca.) di cui fu uno dei compilatori.

Tuttavia a mio modo di vedere il tentativo di Tsurayuki di adozione del punto di vista femminile in un’opera letteraria non merita di passare inosservato dal momento che le scrittrici della letteratura classica giapponese considereranno il Tosa nikki come un modello letterario di riferimento per le loro opere autobiografiche.

A tal proposito meritano particolare attenzione per il loro stile e contenuto il Diario di Murasaki Shikibu, il Diario di Izumi Shikibu e Le memorie della dama di Sarashina. Ciò che più affascina di questi diari è la loro varietà tematica che rende il nikki un genere letterario affascinante e degno attenzione non meno dei monogatari (racconti) di cui il Genji Monogatari di Murasaki Shikibu, il primo romanzo della storia di cui si sia a conoscenza, è uno delle maggiori produzioni.

Il Diario di Murasaki Shikibu, composto nel 1010 durante il periodo in cui Murasaki Shikibu (970 – 1019) prestò servizio come dama di corte dell’imperatrice Shōshi,  si caratterizza per essere da un lato un memoir in cui l’autrice mette a nudo le proprie emozioni e sentimenti, descrive la vita di una dama di corte raccontando aneddoti a cui ha assistito, le relazioni di amicizia o di rivalità con le colleghe e offre degli insegnamenti di vita rivolti alle dame di corte ma di cui tutti i lettori possono farne tesoro; e dall’altro si caratterizza come una cronaca partecipata delle vicende di corte volta a glorificare il clan dei Fujigawa di cui Shōshi ne era un esponente in quanto figlia di Fujiwara no Michinaga, una delle più importanti personalità politiche dell’epoca che si distinse come Ministro della Sinistra (sadaijin), una sorta di Primo Ministro.

Il Diario di Murasaki Shikibu costituisce inoltre un’opera di importante valore storico e sociologico in quanto non si limita a descrivere gli eventi cruciali dell’imperatrice, ma ci mostra i costumi, i comportamenti, i modi di pensare e le credenze della società aristocratica giapponese.

Il diario inizia descrivendo i riti cerimoniali buddisti e i festeggiamenti della nascita dell’erede al trono Atsuhira, figlio di Shōshi e dell’imperatore Ichijō, avvenuti nell’autunno del 1008. In quel periodo l’imperatrice si trovava in ottemperanza all’etichetta di corte alla residenza materna di Tsuchimikado in compagnia delle dame di corte, dei monaci buddisti e dei cortigiani legati alla fazione paterna. Ad esempio apprendiamo quanta importanza si desse all’epoca agli spiriti malefici e che durante il parto venne condotto un vero e proprio esorcismo in cui alcune dame svolgevano la funzione di medium e mentre i monaci buddisti praticavano il rituale loro urlavano come possedute per scacciare via gli spiriti e far in modo che il parto andasse a buon fine.

A distanza di tempo ripenso divertita all’aspetto orribile che noi dame dovevamo avere in quell’occasione: le vesti che indossavamo erano tutte sgualcite e sulle nostre teste continuavano a cadere come fiocchi di neve chicchi di riso per cacciare gli spiriti malefici […] Quando Sua Maestà stava finalmente per partorire, divennero ancora più spaventose le grida di rabbia degli spiriti malefici. A ogni dama che aveva la funzione di medium fu affidato un monaco esorcista […] Chisō Azari […] a un certo punto fu gettato a terra dagli spiriti e poiché sembrava molto provato, intervenne in suo aiuto Nengaku Ajari recitando preghiere ad alta voce […] Il monaco Eikō che venne in aiuto di Dama Saishō continuò a gridare per tutta la notte fino a farsi venire la voce roca. Non tutte le dame impegnate ad accogliere gli spiriti riuscirono a farlo senza problemi e nei dintorni c’era una gran confusione[6]

Attraverso il diario apprendiamo molto anche del carattere di Murasaki e della genesi del Genji Monogatari.

Murasaki fu una donna introversa e taciturna molto colta che amava leggere, scrivere e dedicarsi alle pratiche buddiste. Non amava ostentare la propria cultura e tuttavia il proprio riserbo faceva sì che le dame più spigliate ed estroverse la prendessero per snob. Snob non lo era per niente poiché, sebbene in quegli anni fosse già nota come autrice del Genji Monogatari, non si vantava e anzi con umiltà accoglieva i suggerimenti che di volta in volta riceveva dai lettori (dignitari e dame di corte e nobili delle provincie imperiali) nel perfezionare i capitoli che via via scriveva, dando così vita a una sorta di opera aperta.

Come se non bastasse, poiché Sua Maestà aveva cominciato a preparare dei fascicoli, all’alba subito ci recavamo nei suoi appartamenti per scegliere carta di diverso colore e scrivere lettere a varie persone a cui chiedevamo di ricopiare i racconti che inviavamo loro. Anche rilegare e sistemare quelli già copiati era un lavoro che ci impegnava tutto il giorno. […] Un giorno, mentre ero al servizio di Sua Maestà, Sua Eccellenza, senza farsi vedere da nessuno, entrò nella mia stanza per prendere un racconto che tenevo nascosto e lo diede a Naishi no Kami. Poiché avevo smarrito la versione rivista, più o meno accettabile, ero preoccupata che quella finita nelle mani di Naishi no Kami potesse compromettere la mia reputazione di scrittrice[7].       

Murasaki era molto autocritica e a mio parere anche un po' insicura. A volte le capitava di inviare un racconto alle persone più care ma poi se ne pentiva perché rileggendo il testo si era resa conto che era ancora imperfetto e ne provava vergogna.

Quando a distanza di tempo provai a rivedere il mio racconto, non lo trovai così interessante da leggere e immaginando che le persone più intime, con le quali avevo avuto uno scambio di opinioni sulla mia opera, mi considerassero sfacciata e superficiale per aver condiviso qualcosa che non valeva neanche la pena condividere, provavo una tale vergogna che non riuscivo più a scrivere loro[8].

Inoltre sappiamo che non amava gli ipocriti, i ruffiani, i maldicenti e i vanitosi e con queste persone cercava di averci il meno a che fare e tuttavia temeva il giudizio altrui, anche delle dame che meno apprezzava.

Ad esempio racconta che la dama Saemon no Nashi l’aveva in antipatia per chi sa quale motivo e che quando l’imperatore aveva mostrato apprezzamento per il Genji Monogatari dichiarando che l’autrice doveva “aver letto sicuramente gli Annali del Giappone[9], la dama in questione iniziò a spargere la voce che Murasaki si vantava della propria cultura e la soprannominò “Dama degli Annali”[10]. Di queste maldicenze Murasaki soffre molto perché proprio per evitare di ostentare la sua cultura finge di non sapere leggere i caratteri cinesi “scritti su un paravento”[11] e se Saemon no Nashi venisse a sapere che insegna segretamente all’imperatrice a leggere le poesie cinesi di Bai Juyi chissà cosa andrebbe a dire in giro, concludendo che “è davvero difficile vivere in questo mondo pieno di problemi”[12].

Dal Diario apprendiamo anche che Murasaki aveva anche un sottile senso dell’umorismo e che consapevole della propria bellezza curava molto l’aspetto fisico e prestava molta attenzione agli abiti da indossare in base alle stagioni, le cerimonie e l’età e, consapevole di essere una dama di corte in età matura, evitava di essere frivola o di apparire più giovane di quello che sembrava.

Questo però non valeva per tutte le dame. Alcune soffrivano il trascorrere degli anni come ad esempio Sakyō no Muma, una dama a servizio di Shōshi che preferiva passare il tempo con le dame della consorte imperiale Gishi, che fu vittima di uno scherzo raffinato organizzato dalle dame insieme ad alcuni cortigiani.

Durante i festeggiamenti del gosechi un giorno Sakyō no Muma si confuse tra le damigelle della danzatrice presentata all’imperatore dal Consigliere Ciambellano Sanenari. La dama sperava che nessuno si accorgesse di lei e in cuor suo voleva rivivere la giovinezza di un tempo. L’inganno fu smascherato e l’indomani nella stanza della danzatrice in questione, non distante da quella dell’imperatrice, i nobiluomini riuniti si misero a discutere con voce sommessa di questo fatto insolito. Le dame di corte di Shōshi, tra cui anche Murasaki, vennero a conoscenza del pettegolezzo e decisero di prepararle uno scherzo alla dama, perché non era accettabile “che una persona come lei che un tempo faceva tanto la raffinata si fosse presentata davanti a sua Maestà come una semplice damigella della danzatrice del Consigliere pensando che nessuno l’avrebbe riconosciuta. Bisognava farle sapere che era stata scoperta”[13]. Allora decisero di inviarle una scatola con dentro un ventaglio dell’imperatrice raffigurante il monte Hōrai, simbolo di immortalità e quindi nella fattispecie di una Matusalemme senza ritegno che ricopre un ruolo inadeguato alla sua età e al suo status, un pettine curvato il più possibile a cui furono legati delle “strisce di carta bianca che le damigelle usavano per le loro acconciature”[14], e dei versi irriverenti scritti da Dama Tayū in cui le si diceva che erano stati apprezzati i nastri della sua acconciatura. Come se non bastasse uno dei nobiluomini più giovani prese il pettine e lo piegò ancora di più per fare capire a Sakyō quanto fosse stata ridicola.

Murasaki provava una sincera amicizia verso alcune dame con cui aveva maggiore affinità. Queste erano Koshōshō, Chūnagon e Shoshō con cui si scambiava lettere, condivideva esperienze oppure la stanza divisa da un paravento. Tuttavia in lei c’era molta solitudine e quando era presa dalla nostalgia o dalla malinconia inviava lettere alle persone a lei più care sparse nelle provincie imperiali. A volte però non riceveva risposta perché, a suo parere, molto probabilmente i destinatari pensavano che lei avrebbe rivelato il contenuto alle altre dame di corte, dimostrando però con questo comportamento di non conoscere Murasaki e in particolar modo la sua discrezione.

C’erano poi anche persone importanti che non mi mandavano più le loro lettere pensando magari che una dama di corte come me fosse così superficiale da farle leggere anche agli altri. Ma mi conoscevano davvero così bene da pensare una cosa del genere?[15]       

Murasaki però non ha alcun motivo di sottovalutarsi e di temere la solitudine. Il solo fatto di poter contare su amiche sincere come le dame sopracitate non è cosa poco in un contesto competitivo e stressante quale quello della corte imperiale in cui il trucco, gli abiti, la gestualità e la capacità di intrattenere con la poesia e la musica potevano segnare il successo o la caduta della consorte imperiale e della sua famiglia.

L’autrice dimostra in questo suo diario di avere notevoli capacità poetiche e di essere all’altezza della fama acquisita in quegli anni con il Genji Monogatari.

Una delle poesie waka contenute nel Diario che amo maggiormente è quella in cui Murasaki intravede la propria malinconia nelle oche che sguazzano apparentemente serene e spensierate sul lago della residenza di Tsuchimikado:

Sono forse diverse da me

le oche sull’acqua del lago?

Anche io come loro

mi lascio trasportare

dalle onde della vita[16].

La scrittrice inoltre dimostra con questo suo diario di essere molto saggia e i suoi consigli di vita non vanno semplicemente pensati come avvertimenti per le dame per non sfigurare nella rigida società di corte, ma come insegnamenti morali che possono esserci di aiuto nel stare al mondo.

In uno di questi Murasaki afferma che “è facile criticare gli altri, ma difficile è mettere in pratica quello che si professa. E chi lo dimentica e tratta male gli altri credendo di essere superiore, prima o poi farà una brutta figura perché si scopriranno anche i suoi difetti”[17].

Tra le grandi scrittrici del tempo entrate come Murasaki nella storia della letteratura del tempo e per le quali la nostra autrice non provava molta stima — e che tra l’altro precedentemente erano state dame della consorte imperiale Teishi, cugina di Shōshi — vi sono Sei Shōnagon e Izumi Shikibu.

Sei Shōnagon era per Murasaki una dama presuntuosa che ostentava il più possibile la sua conoscenza del cinese e che in realtà era meno colta di quanto dava a vedere. Prima o poi la sua convinzione di essere la migliore l’avrebbe fatta cadere dal piedistallo.

Di Izumi Shikibu invece apprezza l’eleganza delle lettere, ma lo stile lascia a desiderare. Le sue poesie inoltre per quanto raffinate non sono a parere di Murasaki Shikibu degne di essere ricordate in quanto si denota una conoscenza lacunosa della poetica.

A mio giudizio l’opinione di Murasaki è eccessivamente drastica e perfino ingiusta.

Scrittrice romantica per eccellenza, Izumi trasfigurerà nel suo Diario la storia d’amore intensa avuta con il principe imperiale Atsumichi, fratello di Takegata, con cui aveva avuto una relazione in precedenza interrotta dalla morte precoce di lui, a soli ventisei anni, causata da un’epidemia. La relazione con Takegata durò un anno circa e immersa nel lutto Izumi non pensava che sarebbe arrivata ad innamorarsi del fratello. Così tra omaggi floreali, scambi di lettere e di poesie sboccia l’amore tra i due. Un amore scandaloso che nel dicembre del 1003 porterà la moglie di Atsumichi a tornare dalla famiglia di origine e fare spazio a Izumi. Questa relazione farà molto discutere non soltanto perché era mal vista la passione tra una dama di corte e un principe imperiale, ma anche perché Izumi era sposata con Tachibana no Michisada, governatore della provincia di Izumi che non mancava a sua volta di tradirla come “alludono alcuni suoi componimenti”[18]. Alla morte di Atsumichi avvenuta nel 1007 Izumi riesce a rientrare a corte come dama dell’imperatrice Shōshi, dopo aver servito in precedenza la defunta consorte imperiale Teishi, entrando a far parte di quella cerchia di intellettuali in cui figurava anche Murasaki. Nel 1011 Izumi lascia la corte per sposare il samurai Fujiwara no Yasumasa e trasferirsi nella provincia di Tango dove il marito è stato nominato governatore. L’ex dama sopravvivrà al secondo marito e anche alla figlia Koshikibu e probabilmente in seguito deciderà di “prendere i voti”[19] come monaca buddista.

Nel caso del Diario di Izumi Shikibu, di cui non sono certi né l’attribuzione né l’anno di stesura[20], ciò che stupisce è la sua struttura, che ricorda molto i romanzi autobiografici contemporanei, caratterizzata da una scrittura intimista che sorprende per l’audacia e la forza interiore di questa donna che ama l’amore.

Il diario è scritto in terza persona e poco importa se l’autrice sia effettivamente Izumi o qualcuno che voleva difendere la reputazione e il valore di questa dama di corte controcorrente, perché il testo scorre agevolmente come un racconto. Inoltre le poesie d’amore che vi sono contenute sono di una bellezza indescrivibile e la loro semplicità ce le fa sentire molto vere, dal momento che le emozioni e i sentimenti descritti li abbiamo provati o li possiamo provare anche noi comuni mortali del XXI secolo.

La prima poesia che appare nell’opera è la risposta alla lettera ricevuta da Atsumichi con allegati dei fiori di mandarino per sincerarsi dello stato della dama in lutto per la morte del suo amato. Quella “poesia senza importanza”[21] in cui la donna dichiara la sua intenzione di voltare pagina darà inizio a una storia d’amore più forte di ogni ostacolo:

Più che ricordare

con il profumo dei fiori

vorrei ascoltare il cuculo

per vedere se la sua voce

è uguale a quella che conosco[22].                                                                 

Gli ostacoli più grandi provengono principalmente dal giudizio altrui, vale a dire della società di corte, ma anche dall’opinione che hanno l’uno dell’altra e che, come uno specchio, riflette quello del mondo a cui appartengono.

La dama è ritenuta una donna frivola con tanti amanti e il principe teme che l’amore passionale che prova nei suoi confronti possa causargli un dolore insopportabile. A volte capita che lui si presenti di notte alla residenza dell’amante, ma avendo la sensazione che lei sia impegnata con altri uomini torna deluso nei suoi appartamenti e per lettera gli esprime la propria rabbia mista a sconforto.

La dama per il principe prova però un amore diverso da quelli che ha avuto in passato. Si sente legata a lui da un’affinità profonda e la sua sensibilità e conoscenza poetiche sono senza pari. Quando la dama scrive all’amante una poesia d’amore, lui è l’unico in grado di cogliere i riferimenti colti e di rispondere con versi altrettanto belli che conquisteranno definitivamente il suo cuore.

In una di queste poesie lei dichiara:

Non penso proprio sia

un amore come tanti.

Stamattina per la prima volta

ho capito cosa vuol dire

essere innamorati[23].

Come in ogni relazione vissuta intensamente da entrambi gli amanti capita che ci possano essere delle incomprensioni che devono essere risolte quanto prima affinché la situazione non degeneri.

In una delle poesie la dama ci tiene a convincere il principe che non sono venuti meno i sentimenti nei suoi confronti e che non è il caso di lasciarsi andare a manifestazioni ingiuriose.

Se la porta di legno

era chiusa e sbarrata,

come avete fatto a vedere

se era o non era

freddo il mio cuore?[24]

Una volta che la dama è riuscita a conquistare la fiducia del principe si prospetta la possibilità di trasferirsi nel suo palazzo. Una situazione a lei congeniale che, seppur non le avrebbe garantito sicurezza nel futuro, le avrebbe permesso di continuare a stare con il suo amato e di sfuggire la solitudine. Quando però il principe a causa di un sogno prefigura all’amante la possibilità di prendere i voti una volta che lei si sia trasferita nella sua residenza, lei teme per il proprio futuro e confusa inizia a dubitare della sua affidabilità. Lui però tronca ogni dubbio sul nascere e con una poesia molto commovente dichiara come il suo amore per lei sia rimasto immutato.

Solo la nostra vita

di cui ignoriamo la durata

non può che essere incerta.

Ma le nostre promesse d’amore

saranno eterne come il pino di Sumiyoshi[25].

Quando il principe Atsumichi porterà la dama nel suo palazzo i suoi doveri coniugali verranno sempre meno. A niente varranno i lamenti della moglie che, non potendo sopportare di essere messa da parte, deciderà con grande sorpresa delle sue dame di lasciare il marito per tornare dalla famiglia di origine.

Il Diario di Izumi Shikibu esalta il valore poetico del nikki, facendoci vivere una storia d’amore d’altri tempi che, pur con le dovute differenze contestuali e culturali, ricorda quella tra Lancillotto e la regina Ginevra. Anche quella fu una storia d’amore appassionata, scandalosa e autentica che affascinerà e lascerà il segno in numerose generazioni di lettori e di lettrici, a volte anche tragicamente, come il celebre caso di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini descritto superbamente da Dante nel canto quinto dell’Inferno della Divina Commedia.

Izumi Shikibu fu una scrittrice impavida che proprio perché aveva una natura passionale ha fatto più fatica rispetto alle altre per farsi apprezzare per il suo talento letterario. A mio parere un’autrice così coraggiosa e scandalosa può essere rintracciata nella letteratura italiana nella poetessa e cortigiana veneziana Veronica Franco, che nel Cinquecento ebbe un flirt con il re di Francia Enrico III, l’ultimo dei Valois.

Nota per le sue Terze Rime Veronica Franco ha dimostrato nei suoi versi che le donne non valgono meno degli uomini e non ne manda a dire:

Non so se voi stimiate lieve risco

entrar con una donna in campo armato;

ma io, benché ingannatam v’avvertisco

che ‘l mettersi con donne è da un l’un lato

biasmo ad uom forte, ma da l’altro è poi

caso d’alta importanza riputato.

Quando armate ed esperte ancor siam noi,

render buon conto a ciascun uom potemo,

ché mani e piedi e core avem qual voi;

e se ben molli e delicate semo,

ancor tal uom, ch’è delicato, è forte;

e tal, ruvido ed aspro, è d’ardir scemo.

Di ciò non se ne son le donne accorte;

che se si risolvessero di farlo,

con voi pugnar porìan fino a la morte.

E per farvi veder che ‘l vero parlo,

tra tante donne incominciar voglio io,

porgendo essempio a lor di seguitarlo.  

(Terze Rime, XVI, vv. 58-75)[26]
Le memorie della dama di Sarashina sono un terzo esempio di nikki e si caratterizzano per essere un connubio tra diario di viaggio e racconto confessione (zange monogatari). Scritto molto probabilmente da Sugawara no Takasue no musume (figlia di Sugawara no Takasue) nel 1060 circa, il diario narra in un centinaio di pagine circa i quarant’anni di vita dell’autrice dalla partenza da Kazusa quando era una giovane fanciulla di tredici anni affascinata dalla lettura dei monogatari fino alla morte del marito Tachibana avvenuta nel 1058.

Sugawara no Takasue no musume fu scrittrice prolifica di racconti e poesie, imparentata dal lato materno con l’autrice del Kagerō nikki e molto probabilmente lontana parente — dal momento che la madre era una Fujiwara — di Murasaki Shikibu, scrittrice a cui la dama di Sarashina si sentiva particolarmente affezionata.

L’opera con profonda sorpresa del lettore si rivelerà una condanna dei monogatari, che a parere dell’autrice non fanno altro che nutrire i lettori di illusioni e speranze che non trovano riscontro nella realtà. Una confessione a dir poco sconcertante da parte di una scrittrice molto prolifica e di cui Fujiwara no Teika, il poeta di corte del 1200 che ha tramandato la lettura classica di epoca Heian, cita nella nota conclusiva alcune opere che purtroppo non tutte sono giunte fino a noi.

La protagonista del diario fin da giovane preferisce trascorrere le giornate nella lettura dei racconti piuttosto che passare il tempo con le coetanee dedite alla preghiera, incapaci di comprendere il suo amore per la letteratura. Vivendo a Kazusa, cittadina molto lontana da Kyōto, è delusa dalla lettura dei riassunti e delle versioni incomplete della Storia di Genji e degli altri monogatari e non vede l’ora che suo padre termini il mandato di governatore per poter far ritorno alla capitale e accedere a tutte le opere letterarie possibili.

Il viaggio da Kazusa a Kyōto lungo la via del Tōkaidō si rivelerà però una delusione. Il paesaggio non assomiglia per niente a quello descritto da Murasaki Shikibu o dall’autore dell’Ise monogatari. L’autrice nota ad esempio come nella provincia di Musashi la sabbia non era bianca come quella descritta nel romanzo di Murasaki Shikibu, ma nera come fango e nei campi non c’erano i fiori della pianta del murasaki simili alla violetta, ma “solo piante di ashi e di ogi così alte da celare l’estremità degli archi dei cavalieri”[27]. L’autrice fa intendere di essere stata vittima di una menzogna e, chissà per quale motivo, non tiene conto di vari fattori come il passare del tempo, che modifica la realtà e quindi anche il paesaggio, e il diritto degli scrittori di poter far uso dell’immaginazione oltre che alla memoria nella scrittura di un’opera letteraria. Quando Murasaki Shikibu ha scritto il Genji monogatari non intendeva scrivere un’autobiografia, ma un’opera di finzione in cui nel narrare le disavventure di un principe ideale ma non perfetto, ambientate principalmente a Kyoto, potesse ripercorrere in alcuni capitoli i luoghi cari al suo passato come la piana di Musashi o la spiaggia di Suma. Nel ricordarli molto probabilmente non sarà stata obiettiva, ma era così importante per il tipo di opera che stava scrivendo? D’altra parte come afferma Byron nei suoi Pensieri Slegati “di definito non resta gran cosa senza uno sforzo della memoria – allora sì che le luci si riaccendono un istante – ma chi può garantire che non sia frutto dell’Immaginazione?”[28].

Terminato il viaggio l’autrice rimane delusa dalla capitale. Le sue aspettative non trovano riscontro nella realtà e si trova ad affrontare una delusione dopo l’altra. La casa è a suo dire grande e fatiscente, per niente a che vedere con le dimore principesche dei racconti. Il suo interesse per la letteratura però rimane intatto. Tramite una zia riuscirà ad ottenere tutti i fascicoli del Genji monogatari di cui fino ad allora aveva potuto avere soltanto una conoscenza lacunosa e frammentaria e dedicare il tempo alla lettura. Le ore immerse nella lettura vengono interrotte dalla morte di persone care come la nutrice, la giovane figlia del Ciambellano e del Consigliere che un sogno le rivela di essersi incarnata nel gatto di casa e la prematura scomparsa della sorella a cui era molto legata, una delle poche ragazze che riuscisse a capirla. In quegli anni di letture intense e formative l’autrice ebbe alcuni sogni rivelatori in cui le si prospettava l’infelicità della vita futura se non avesse preso i voti. A quei sogni non intende dare ascolto. Non si vede come monaca e vorrebbe vivere di scrittura come Ukifune nel Genji monogatari e vivere una storia d’amore ideale come quella tra Yugaō e Genji lo Splendente o quella tra Ukifune e Kaoru, il generale di Uji ritenuto da tutti figlio di Genji ma in realtà frutto dell’amore tra la Guardia di Palazzo Kashiwagi e la Terza Principessa (nipote e quarta moglie di Genji). Tuttavia si colpevolizza di non averlo fatto, perché a suo parere se avesse obbedito a quei sogni non si sarebbe trovata nell’attuale condizione di infelicità e di solitudine con un marito morto che non assomigliava per niente a Genji lo Splendente. Teme di non raggiungere il paradiso del Buddha Amida, anche se nell’undicesimo e ultimo sogno la divinità gli appare in tutto il suo splendore su un piedistallo a forma loto e le dice: “«Adesso me ne vado, ma ritornerò a prendervi»”[29].

Questa importanza assegnata ai sogni, che la narratrice al contrario di quanto possa sembrare non sottovaluta mai, non deve apparirci strana perché nel Giappone medievale esisteva un vero e proprio mercato dei sogni in cui addirittura si poteva commissionare a un monaco o a un pellegrino di recarsi al tempio e di ottenere per suo conto, mediante la preghiera, “delle visioni sperimentate in sogno o durante lo stato di veglia”[30]. Per i giapponesi dell’epoca i sogni non sono delle fantasticherie, ma “miracolosi responsi divini ai desideri dell’uomo con conseguenze tangibili nella vita di ogni giorno”[31].

Nel diario un ruolo molto importante è ricoperto anche dalla luna, simbolo dai significati molteplici. L’astro a seconda dei momenti rappresenta la solitudine, il dolore, l’amore o la speranza nella salvezza finale.

Uno dei passi più belli in cui è citata la luna è quello in cui l’autrice ricorda la propria esperienza breve e discontinua come dama di corte.

Era una notte buia di ottobre e la dama di Sarashina sentì dei monaci buddisti intenti nella lettura ininterrotta delle sacre scritture del Fudankyō in cui si prega per la salvezza delle anime dei defunti. Colpita dalla bellezza della voce dei monaci la figlia di Sugawara no Takasue decise di abbandonare la stanza in compagnia di un’altra dama e di avvicinarsi alla sala dove i monaci si trovavano. Nel frattempo arrivò un gentiluomo che si mise a conversare con loro. Non era il solito cortigiano che cercava di attaccare bottone con le dame con discorsi licenziosi, ma un’anima poetica con una sensibilità musicale che riusciva a scovare il bello in tutte le cose. Per lui anche una notte buia autunnale ha il suo fascino, ma di certo la luna con il suo chiarore induce in chi la contempla delle suggestioni di volta in volta diverse in base alla stagione. La sua stagione preferita era l’inverno perché gli ricordava quella volta in cui era andato a Ise ad assistere all’investitura della nuova sacerdotessa e la visione della luna, che risplendendo in maniera suggestiva sulla neve suscitò in lui una “profonda solitudine”[32], e le ore notturne trascorse suonando il biwa (strumento musicale a quattro corde simile al basso che si suona con il plettro), lo trasportarono “in un’altra dimensione”[33] che lasciò in lui un segno indelebile.

L’episodio raccontato dal funzionario si ricollega a mio parere a un passo bellissimo del Diario di Murasaki Shikibu in cui si afferma che “ci sono piccoli episodi che a seconda del luogo o del momento in cui si verificano ci colpiscono molto più del solito”[34].

Questo gentiluomo che la dama di Sarashina conobbe fu, dobbiamo supporre, l’essere che più rassomigliava a Genji lo Splendente per la sua sensibilità d’animo, da come si evince dalla poesia che lei gli invia e a cui con suo rammarico non riceve risposta:

O pescatore della costa

potrai mai capire l’animo

di chi ha cercato l’ora propizia

per remare, sfidando il pericolo,

verso la sospirata spiaggia?[35]     

Dopo aver letto Le memorie della dama di Sarashina si prova un misto di sentimenti contrastanti, che vanno dall’apprezzamento alla rabbia.

É incomprensibile come una scrittrice di talento che ha amato la letteratura fino allo spasimo e ha scritto tanto e in maniera variegata voglia rinnegare se stessa e il suo passato, considerando i racconti e le poesie delle futilità senza senso che le costeranno la salvezza dell’anima.

Se in passato, invece di appassionarmi a futili racconti e poesie, mi fossi dedicata dalla mattina alla sera alle pratiche religiose, non avrei vissuto un’esistenza effimera come un sogno[36].

Quel che è certo è che se la dama di Sarashina si fosse dedicata alla religione piuttosto che alle lettere magari avrebbe potuto incontrare Amida in Paradiso ma non staremmo oggi a scrivere di lei. Probabilmente avrebbe dovuto avere amici più veri che la rassicurassero sul fatto che non c’è niente di male nell’essere se stessi e che non è una colpa leggere letture profane e avere una vocazione letteraria. D’altra parte come ammiratrice di Murasaki Shikibu non poteva non avere presente il capitolo Lucciole (Hotaru) del Genji monogatari in cui l’autrice fa pronunciare a Genji un discorso sull’utilità didattica e ludica dei monogatari quando vede Tamakazura intenta a leggere dei racconti. Sarà forse perché sono non credente e non credo nel potere dei sogni, ma per quanto mi possa mettere nei suoi panni non riesco proprio a comprendere il suo senso di colpa per aver vissuto una vita effimera che, sebbene non sia stata quella dei suoi sogni, è stata caratterizzata da agiatezza e potere sociale.

In conclusione la diaristica femminile giapponese ci rivela la forza evocativa e la sorprendente varietà tematica della letteratura autobiografica, che ha permesso alle scrittrici dame di corte di poter essere apprezzate per il loro valore, il loro talento e la loro intelligenza in una società rigida e maschilista in cui le donne erano considerate soltanto come figlie, sorelle e mogli di qualcuno. Attraverso la scrittura sono riuscite ad emergere e a incidere il loro nome nella storia della letteratura giapponese sopravvivendo al passare del tempo, alle mode e a una critica letteraria per secoli viziata dal pregiudizio e dal sessismo. 

Le loro opere non sono sogni effimeri, ma tracce di esistenze che arricchiscono non solo il panorama letterario ma anche la nostra vita.

Roberto Cavallaro


[1] Carolina Negri (a cura di), Introduzione, in Carolina Negri (a cura di) Le memorie della dama di Sarashina, trad. it. di Carolina Negri, Marsilio, Venezia, 2005, p. 11.    

[2] Ivi, p. 13.

[3] Ivi, p. 14.

[4] Ivi, p. 20.

[5] Ivi, p. 16

[6] Carolina Negri (a cura di), Diario di Murasaki Shikibu, trad. it. di Carolina Negri, Marsilio, Venezia, 2015, pp. 49-51.

[7] Ivi, p. 78.

[8] Ivi, p. 79.

[9] Ivi, p. 107.

[10] Ivi, p. 108.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p. 109.

[13] Ivi, p. 88.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 79.

[16] Ivi, p. 64.

[17] Ivi, pp. 102-103.

[18] Carolina Negri (a cura di), Introduzione, in Carolina Negri (a cura di) Diario di Izumi Shikibu, trad. it. di Carolina Negri, Marsilio, Venezia, 2008, p. 18.    

[19] Ivi, p. 20.

[20] Ivi, p. 21.

[21] Carolina Negri (a cura di) Diario di Izumi Shikibu, op. cit., p. 34.    

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 38.

[24] Ivi, pp. 42-43.

[25] Ivi, p. 92.

[27] Carolina Negri (a cura di), Le memorie della dama di Sarashina, op. cit., p. 53.    

[28] George Gordon Byron, Pensieri Slegati, 51, in Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno. Diari., trad. it. di Ottavio Fatica, Adephi, Milano, 2018, p. 192.

[29]Carolina Negri (a cura di), Le memorie della dama di Sarashina, op. cit., p. 116.     

[30] Carolina Negri (a cura di), Sogni divini, Introduzione, in Carolina Negri (a cura di) Le memorie della dama di Sarashina, op. cit., p. 33.

[31] Ivi, p. 32.

[32] Carolina Negri (a cura di), Le memorie della dama di Sarashina, op. cit., p. 98.     

[33] Ivi, p. 99.

[34] Carolina Negri (a cura di), Diario di Murasaki Shikibu, op. cit., p. 111.

[35] Carolina Negri (a cura di), Le memorie della dama di Sarashina, op. cit., p. 100.

[36] Ivi, p. 115.