Il Forte "Castiddazzu" di Messina

Contattaci
Chi siamo
Richiedila Ora

Antichissimo d’origine (Giuseppe Buonfiglio, nella sua “Messina Città Nobilissima” del 1606, lo considera opera del mitico gigante Orione), costruito probabilmente su mura attribuite a popolazioni preelleniche, il forte Castellaccio si erge su una collina a 150 metri sul livello del mare, a controllo della sottostante vallata di Gravitelli.

Ricostruito in varie epoche, rifatto di legname e fascine sotto il Vicerè Giovanni De Vega nel 1547, venne poi ridotto, nello stesso secolo, in forma quadrata con quattro bastioni agli angoli, dall’architetto bergamasco Antonio Ferramolino (autore, a Messina, anche del Castello del SS. Salvatore, del Castello Gonzaga e della cinta muraria fortificata). Nel 1674, durante la rivolta antispagnola, fu preso d’assalto dai messinesi comandati dal valoroso Giacomo Avarna. Utilizzato, in quella circostanza, come osservatorio contro gli spagnoli, avvisava con una cannonata i cittadini dei maggiori pericoli.

Danneggiato dal sisma del 28 dicembre 1908, fu ampiamente manomesso all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, quando vi si installò la “Città del ragazzo”. In quell’occasione, oltre allo stravolgimento generale della natura dei luoghi, all’interno del castello venne edificata una palazzina con finestre in falso stile gotico. Della struttura originaria rimane la pianta quadrata rafforzata agli angoli da bastioni a cuneo, il cornicione continuo di coronamento a sezione semicircolare e le guardiole sugli spalti, anche se notevolmente rimaneggiate.

Un esempio di cattivo ed improprio uso di una struttura monumentale di grande importanza storica che, altrove, non certo a Messina, sarebbe stata degnamente recuperata e adeguatamente valorizzata. Importanza storica che fu ulteriormente enfatizzata dal poeta e giornalista messinese Pasquale Salvatore nella sua emblematica poesia “Castiddazzu

"Cu’ carriò la petra e la quacina,
cu travagghiò pi gghisari sti mura,
facènnumi cchiù forti, d’ura in ura,
dormi, e non s’arrispigghia a la matina:
dormi, di trenta sèculi…
O Missina,
tu intantu addivintavi gran signura!
Ma poi ti vosi ‘nterra la svintura,
mentri, cu’ potti, ti mintìu ‘ncatina.
Lu foristeri ora cchiù non ti vanta;
l’aria libbera tò cchiù non cci coli.
Ed oramai di tia nuddu si scanta…
Ma, addritta e fermu, supra sta muntagna,
iò cci cantu, a cù voli e a cù non voli:
Missina cc’era, e Roma era campagna."


Nino Principato