Herman Melville, l’Omero americano

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Sono trascorsi duecento anni dalla nascita di Herman Melville e la sua opera non smette di stupirci e di interrogarci sul destino e sulla natura ultima dell’uomo e del mondo.

Melville è nato a New York il 1° agosto 1819 figlio di Allan Melvill, agiato mercante di pellicce di origini scozzesi che morirà in preda a disturbi psichici all’età di cinquant’anni lasciando la famiglia in bancarotta, e di Maria Gansevoort, appartenente a un’altolocata famiglia di origini olandesi, e nipote di Thomas Melvill di Boston e Peter Gansevoort di Albany, che furono figure di rilievo nella guerra d’indipendenza americana, e le cui vicende entreranno a far parte della storia familiare andando a costituire un serbatoio da cui lo scrittore trarrà linfa per arricchire la trama delle proprie opere narrative.

In Melville infatti c’è la capacità di creare una sintesi compiuta di esperienza di vita, memoria familiare, fatti di cronaca, storia, narrativa, poesia, filosofia e scienza.

Moby Dick (1851) è senza dubbio il romanzo in cui questo obiettivo raggiunge livelli eccelsi grazie alla bravura dell’autore di riuscire a descrivere l’epopea della caccia alla balena e la sfida metafisica dell’uomo alla natura – incarnata dalla monomania del capitano Achab di uccidere il capidoglio Moby Dick la cui bianchezza mortale è al contempo suprema esaltazione e negazione della vita –  con uno stile poetico e ricercato ma allo stesso rigoroso e scientifico: come dimostrano i capitoli saggi in cui Melville descrive la composizione biologica del capidoglio, la storia evolutiva del cetaceo come anche la procedura eseguita per realizzare l’olio di balena, le rotte, la distribuzione e l’uso che ne viene fatto sul mercato.

Ridurre Melville a Moby Dick è però un peccato mortale e un torto nei confronti di uno scrittore fenomenale, eccellente anche come scrittore di racconti e poeta, che insieme all’amico Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan Poe e Walt Whitman è uno dei maggiori esponenti del Rinascimento Americano e colonna portante dell’intera letteratura americana.

Melville è a mio parere il punto di contatto tra James Fenimore Cooper – non è un caso che Melville abbia pubblicato Moby Dick nell’anno della morte dell’autore del ciclo di romanzi di Calza di Cuoio e di cui L’ultimo dei mohicani è il romanzo più celebre – e gli scrittori della seconda metà dell’Ottocento, come Mark Twain e Jack London, senza trascurare i premodernisti come Henry James, il quale dichiarerà esplicitamente quanto la lettura dei racconti scritti da Melville per le riviste letterarie Putnam e Harper siano stati fondamentali per la sua maturazione artistica.

Melville erediterà infatti da Cooper la riflessione sul volto distruttore della civilizzazione occidentale, mettendone in evidenza l’ipocrisia dei buoni sentimenti del cristianesimo come anche l’egoismo e lo sfruttamento utilitaristico alla base dell’ideologia del progresso e del colonialismo, che porterà alla devastazione della natura e alla corruzione delle civiltà tribali come gli indigeni tahitiani di Omoo (1847) o gli indiani depredati delle loro terre come nel poema in prosa John Marr (1888), il marinaio che nel ricordare i camerati di un tempo ripercorre la storia degli Stati Uniti d’America ponendo l’accento sulla politica della frontiera che ebbe un notevole sviluppo durante le presidenze di Andrew Jackson e di Zachary Taylor, di cui Melville già criticò la politica militare ancor prima che assumesse la presidenza in alcuni articoli satirici scritti per il Yankee Doodle nel 1847.

Questa visione del mondo è già presente in Taipi (1846) in cui l’esordiente Melville racconta in forma romanzesca la sua esperienza nelle isole Marchesi a contatto con i Typee della baia di Nuku Hiva. Con l’occhio dell’antropologo l’autore newyorchese riconosce il carattere di civiltà alle popolazioni polinesiane entrate nell’orbita di interesse della Francia, che nel 1842 imporrà per mezzo del capitano Abel Dupetit Thonars il protettorato su Tahiti, all’epoca governata dalla regina Pomare IV, scacciando definitivamente i commercianti americani e i missionari inglesi e il console britannico dall’isola.

Ai tempi della recente occupazione francese di Nuku Hiva (isola che non fa parte di Tahiti) Melville dimostra come ci fosse parecchia confusione tra le diverse civiltà presenti nel territorio. Da un lato i missionari inglesi si prendono gioco della bandiera francese e credono di potere convertire gli indigeni al cristianesimo. Dall’altro lato i Typee sembrano ignari dell’occupazione, continuando a condurre la vita di sempre e illudendosi di poter mantenere la loro organizzazione sociale. Un’organizzazione che trova fondamento nei taboo che regolano la vita pubblica e quotidiana della società tribale e nella nudità dei corpi degli indigeni contrassegnati dai tatuaggi. Melville nota attraverso i personaggi di Tom (per i nativi Tommo) e Toby, caduti prigionieri dei Typee, come questa nudità non sia volgare ma pura e invitante in quanto il corpo è ritenuto sacro e gli indigeni sono ignari del concetto di pudore. Tanto è vero che quando la moglie del missionario approda nell’isola viene fatta spogliare per verificarne il sesso ma lei, indignata da un simile comportamento e convinta di essere assolutamente nel giusto, costringe il marito ad abbandonare la regione perché non c’è speranza di salvezza per simili selvaggi.

Melville però in anticipo con l’etnoantropologia di Taylor (Cultura Primitiva è del 1871) dimostra l’esistenza e l’importanza delle civiltà tribali, e quindi come i polinesiani abbiano una loro cultura diversa e non per questo inferiore a quella occidentale, sovvertendo così il concetto del buon selvaggio bisognoso di essere civilizzato e convertito al cristianesimo che aveva trovato la sua massima espressione nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe.

Tuttavia la cultura tribale è destinata a soccombere al processo di civilizzazione condotto dalle potenze occidentali. La cultura polinesiana si corromperà irrimediabilmente perdendo così la purezza e l’innocenza originarie.

In tal modo il corpo nudo smette di indurre rispetto e venerazione ma diventa osceno e volgare. Inoltre il pudore indotto dal cristianesimo fa sì che gli stessi sovrani polinesiani provino vergogna nei confronti del loro corpo.

La controprova Melville la fornirà nel seguito di Taipi, Omoo (1847), in cui il protagonista riesce a fuggire dall’isola e a imbarcarsi a bordo della nave australiana Julia. Inizia così una nuova avventura che porterà Omoo (che in polinesiano significa vagabondo tra le isole) ad attraversare i Mari del Sud fino a giungere a Tahiti. Qui insieme al medico di bordo il dottor Fantasmone (Long Ghost in originale) Omoo sarà ricevuto a corte dalla regina Pomare IV nella speranza di poter ottenere un incarico nella flotta tahitiana. Ciò che colpisce di questo incontro non è tanto il rifiuto della sovrana, ma come la sua sovranità sia puramente nominale e la consapevolezza tragica di tutto ciò: un vuoto simulacro che non vuole farsi dominare ma che, impotente, si trova costretto a fare il gioco delle potenze occidentali.  

Pomare ha il corpo coperto, in particolare il protagonista nota la toga blu di seta e gli scialli rosso e giallo attorno al collo, e l’unica parte del corpo denudata sono i piedi. Inoltre la decadenza della sua regalità è confermata dal suo aspetto matronale – e a quanto si dice segnato dai colpi periodicamente inferti dal marito alcolizzato – molto lontano da quello attraente che fino a non molto tempo prima contraddistingueva i sovrani delle isole del Pacifico. A tutto ciò si deve aggiungere la ricchezza delle stoviglie di stampo occidentale, che però la sovrana disdegna davanti ai suoi commensali stranieri per consumare il pasto con le mani. L’atteggiamento risoluto dei due camerati susciterà infine la rabbia della regina che con un gesto inequivocabile e impositivo determinerà il loro allontanamento dal palazzo, sancendo così l’impossibilità di incontro tra le due culture.

Il successo di Taipi e Omoo renderà Melville uno dei più celebri scrittori di avventura del suo tempo, ma si rivelerà anche un insormontabile ostacolo per il suo desiderio di scrivere romanzi puramente di finzione e dalla struttura articolata.

È in questo senso che dobbiamo interpretare Mardi (1849), romanzo allegorico filosofico di notevole profondità poetica che si rivelerà un fiasco.

Desideroso di misurarsi con la letteratura satirica del passato, in particolare con il Gargantua di Rabelais e I viaggi di Gulliver di Swift, Melville intendeva rappresentare nell’arcipelago immaginario di Mardi nei Mari del Sud il fallimento del pensiero occidentale nella sua ricerca della verità assoluta.

Il protagonista di questo romanzo è un marinaio americano che fuggito dalla nave in compagnia del norvegese Jarl il vichingo giunge nell’isola di Mardi. Qui viene confuso dal sovrano indigeno con la divinità Taji e il suo tempestivo intervento impedisce il sacrifico della bella Yillah, una bella ragazza nuda e vergine dai capelli biondi lucenti e dalla carnagione ambrata. Yillah rappresenta il bene e la verità assoluta e il protagonista se ne innamora perdutamente. Tuttavia la verità non si fa acchiappare con facilità e svanisce rapidamente. Taji si fionda alla ricerca di Yillah, ma il viaggio tra un’isola e l’altra dell’arcipelago si rivelerà vano e infruttuoso.

L’autore americano ripiegherà nei successivi romanzi (Redburn 1849; White Jacket 1850) alla narrativa marinaresca di stampo autobiografico che lo aveva consacrato, senza però rinunciare all’obiettivo ambizioso di scrivere un romanzo-poema capace di cogliere la natura ultima delle cose.

Ciò avverrà con il sesto romanzo, il superlativo Moby Dick (1851), con il quale l’autore non si limiterà a rappresentare il divorzio tra l’uomo e la natura e la necessità di un ripensamento di questo rapporto, ma attuerà e perfezionerà l’ideale del filosofo Emerson di veder realizzato un romanzo-prosa in cui sia possibile rappresentare la realtà secondo la propria mente e il proprio cuore.

Moby Dick è per ciascun personaggio una creatura di Dio di cui non si può non tener conto. Per Achab è un essere divino e mostruoso, incarnazione del male metafisico che bisogna a tutti costi annientare dalla faccia della terra. Per l’indigeno Queequeg è un demone di quelli che popolano l’immaginario della religione del suo popolo contro il quale ha sempre lottato, per Stubb e Flask nient’altro che un sorcio d’acqua; e infine per il quacchero Starbuck è una follia dare la caccia a una creatura senza ragione e, pur tentando di far schierare l’equipaggio dalla sua parte, alla fine Achab avrà la meglio nella sua caccia ossessiva e il primo ufficiale, non potendo contravvenire ai precetti religiosi cui è legato, si troverà suo malgrado ad obbedire al capitano del Pequod.

Ciò che stupisce in quest’opera narrativa è l’elevata forza simbolica di ogni elemento romanzesco. Ad esempio i nomi dei personaggi, nella stragrande maggioranza biblici, recano in sé il marchio del proprio destino. Non è un caso che Achab ricordi il re biblico, che su consiglio della moglie Gezabele abiura la religione ebraica per convertirsi al culto di Baal e dare una caccia forsennata agli israeliti, finché non troverà la morte in combattimento così come preannunciato dal profeta Elia. Oppure Ismaele, personaggio biblico venerato anche nel Corano, che insieme alla madre Agar viene mandato in esilio nel deserto dal padre Abramo il quale teme la gelosia della moglie Sara madre di Isacco. Così come la figura biblica riuscirà a sopravvivere al deserto, allo stesso modo anche la voce narrante del romanzo di Melville sopravvivrà al naufragio del Pequod. La Rachele giungerà a salvarlo, permettendo a Ismaele di raccontare la storia di Moby Dick e insegnare agli uomini la necessità di rispettare la Natura in tutta la sua sacralità e ambiguità in quanto splendida e orribile, benigna e malvagia, vulnerabile e immortale.

Moby Dick fu contrariamente a quanto si possa pensare un insuccesso enorme per Melville. Sebbene alcuni autori – tra cui Hawthorne – riconobbero la qualità dell’opera, la maggior parte dei critici cassarono il romanzo in cui l’autore riponeva le sue maggiori speranze di essere riconosciuto per il suo valore. La recezione del pubblico non fu d’altronde delle migliori e quando il romanzo andò fuori catalogo non ci fu una nuova ristampa. L’opera più famosa di Melville verrà ristampata nel 1892, un anno dopo dalla morte, e soltanto negli anni venti il romanzo verrà riconosciuto come uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi.

Per tutta la sua esistenza Herman Melville fu considerato uno scrittore promettente che avrebbe fatto grandi cose, ma finché fu in vita alla sua opera non fu dato inspiegabilmente grande peso. È vero che Melville all’epoca aveva soltanto 34 anni, ma questo non significa che uno scrittore così giovane non possa aver raggiunto precocemente la maturità artistica.

Con gli ultimi tre romanzi (Pierre 1852; Israel Potter 1856; L’uomo di fiducia 1857) Melville tenterà di cambiare rotta, ma non riuscirà a centrare il successo dei primi due romanzi. In queste sue ultime opere il grande romanziere americano affronta tematiche profonde come l’ipocrisia dell’opinione pubblica o le molteplici maschere falsamente rassicuranti che incontriamo nella quotidianità.

Maggior successo Melville lo riscontrerà come autore di racconti. Tra questi è doveroso ricordare Bartleby, lo scrivano (1853) e Benito Cereno (1855).

Nel primo lo scrittore newyorchese affronta con humour la tematica dell’alienazione dell’uomo contemporaneo, svuotato dalla ripetizione del lavoro e oppresso dalla frenesia e la finta morale filantropica della società borghese. Il giovane scrivano Bartleby con i suoi “Preferirei di no” rivolti all’avvocato filantropico per cui lavora è espressione dell’incomunicabilità dell’uomo contemporaneo con la società borghese del profitto dalla morale buonista. La disperazione muta di Bartleby, vittima della ripetizione del lavoro teso ad aumentare la produzione e l’efficienza, è incomprensibile per l’uomo omologato al sistema. Il narratore avvocato dai buoni sentimenti è impotente di fronte ai rifiuti di Bartleby e non sa come comportarsi. Il protagonista giungerà così alla stasi assoluta e una volta in prigione non può che farla finita in quanto il suo rifiuto non può essere capito dagli uomini.

In Benito Cereno invece Melville sorprende il lettore con il suo stile.

Se Bartleby aprirà la strada a Kafka e a tanti altri scrittori del Novecento per l’originalità della tematica trattata, in questa novella di ambientazione marinaresca Melville ci sorprende con la tecnica della doppia narrazione. Se fino a metà racconto, attraverso gli occhi e i preconcetti del capitano americano Amasa Delano, siamo portati a vedere in Benito Cereno un marinaio violento, schiavista, inetto e maleducato; progredendo con la lettura il lettore prende consapevolezza di come la realtà non sia quella che appare. Il nero Babo così gentile e premuroso nei confronti dell’apparente “padrone” è in realtà il vero artefice di tutta questa messa in scena, come poi apprenderemo con la testimonianza finale di Benito Cereno al processo di Lima sull’ammutinamento della San Domenico. Se non fosse stato per il tentativo disperato di salvarsi da parte di Benito Cereno, Amasa Delano non avrebbe potuto raccontare l’incredibile storia che ha vissuto e noi ne avremmo saputo molto meno sulla natura ambigua dell’uomo.

L’ultima opera che Melville pubblicò come scrittore di professione fu il romanzo L’uomo di fiducia del 1857, pubblicato mentre era in viaggio in Europa e Medio Oriente. È proprio in quest’anno che Melville approderà a Messina e rimarrà incantato – come apprendiamo nei discorsi delle conferenze tenute negli USA intorno agli anni 60’   – dalle statue di Roma e in generale dal patrimonio artistico e culturale italiano.

Quest’anno di viaggi inciderà profondamente in Melville come dimostrano il poema di 18000 versi Clarel (1876) sul pellegrinaggio a Gerusalemme e le poesie di viaggio contenute in Timoleon (1891). Tra le poesie di quest’ultima raccolta ce n’è una molto bella su Venezia la cui bellezza architettonica viene paragonata al sublime della barriera corallina dell’Oceano Pacifico che aveva visto in gioventù.

L’opera poetica di Melville è stata spesso sottovalutata, ma per lo scrittore americano la poesia non era un mero passatempo. È molto triste pensare che per pubblicare i suoi poemi Melville abbia dovuto ricorrere all’auto pubblicazione, ad eccezione forse della sua prima raccolta di poesie sulla guerra di secessione americana dal titolo Battle-Pieces and Aspects of War (1866), che fu pubblicata da Harper, e della seconda raccolta, Clarel (1876), che fu pubblicata da Putnam a proprie spese, grazie al prestito dello zio Peter Gansevoort.

Le ultime due raccolte (John Marr and Other Sailors 1888, Timoleon 1891) furono pubblicate con una tiratura di 25 copie. Praticamente l’autore di Moby Dick pubblicò le sue poesie per la sua famiglia e gli amici intimi.

Senza focalizzarmi troppo sulla poetica di Melville, vorrei comunque fare presente come l’autore riuscisse a riassumere in pochi versi la complessità del suo pensiero. Alcuni poemi ricordano passaggi salienti delle opere in prosa, come i versi di Presentimenti: “allora penso ai cupi mali della mia terra/la tempesta che esplode dal deserto del tempo/nella speranza più luminosa del mondo avvinta/al crimine più orrendo dell’uomo”[1]; altri invece sembrano contenere l’intera produzione letteraria passata, presente e futura del grande scrittore americano. È in tal senso che interpreto la strofa di John Marr: “Per dove, verso dove voi marinai mercanti/su quale rotta nell’urlo dei venti?/E voi, cacciatori di  balene,/ancora gareggiate sulle lance/per essere i primi sulla scia del leviatano? […] cercherete invano di scrutare in basso/quando, chinati dalla plancia baluginante/un fratello vedrete inabissarsi nel buio?”[2].

Piegato dal malessere fisico (reumatismi alla schiena, una caduta dal calesse, dolori alla sciatica e problemi alla vista) come anche dai disagi psichici dovuti a un lavoro insoddisfacente quale quello di impiegato alla dogana (da cui darà le dimissioni nel 1885) e colpito dai problemi familiari (soltanto nel 1867 la famiglia della moglie vuole il divorzio per presunti disturbi psichici dello scrittore e l’11 settembre il figlio maggiore Malcolm si spara e viene trovato morto dal padre), Melville non rinuncerà alla scrittura fino alla morte.

Postuma uscirà la bellissima novella Billy Budd (1924) che contribuirà alla riscoperta dello scrittore.

Il Bel Marinaio è un buono e puro in mezzo a una società corrotta abitata da gente invidiosa e subdola con cui è difficile rapportarsi. Di gente come John Claggart che accusa un innocente soltanto perché prova invidia e gelosia della sua bontà e bellezza fisica e morale il mondo è pieno. La legge però è fredda e dura e non ha compassione per chi subisce ingiustizie. Billy Budd non sa spiegare a parole l’accusa infondata di Claggart secondo cui il giovane marinaio stava tramando un ammutinamento. Incredulo e scioccato nel sentire una simile assurdità, Budd dà un pugno in fronte a Claggart Gambelunghe e lo uccide sul colpo. Il capitano Vere riunisce i propri ufficiali e, nonostante abbia compassione per Budd, alla fine riesce a convincere la giuria della necessità di applicare assiduamente la legge. Budd va così incontro alla morte senza paura. La sua morte per impiccagione all’albero di trinchetto avrà tuttavia del miracoloso. Budd non avrà alcuno spasmo e quando il suo corpo verrà gettato in mare la sua voce muta continuerà a cantare e a riempire l’immaginario della marineria inglese.

Sono passati duecento anni e Melville continua a cantarci la terraferma e i mari di tutto il mondo, le civiltà perdute che sono entrate in contatto con l’occidente, il fallimento della civilizzazione con il suo volto distruttivo e spersonalizzante e la sua morale perbenista, che impedisce ai Pierre di turno di potere essere felici e ai Billy Budd di potere continuare a vivere innocenti e buoni in questo mondo malvagio.

Melville ha lottato tutta la vita per farsi valere come scrittore e alla fine è diventato un classico imperituro come Omero. Il suo canto ci invita inoltre a non desistere mai dalle difficoltà e dagli intoppi della vita, perché alla fine il tempo premierà i meritevoli. 

Già ai suoi tempi Melville aveva preconizzato la fine delle avventure marinaresche a causa dell’avvento del turismo di massa e che il capitalismo sfrenato avrebbe sì trasformato gli Stati Uniti nel maggiore produttore di cereali del mondo, ma a un prezzo troppo altro con danni irreversibili all’ambiente, alla fauna e alla civiltà umana. Questo non significa che gli altri Stati del mondo e gli uomini delle altre civiltà ne siano esenti. Il suo è un canto universale che mira al cuore dell’uomo di ogni tempo e di tutte le latitudini.

Mi piace ricordare Melville davanti al suo camino, stanco della traversata oceanica, che dialoga con il suo amico Hawthorne o che si rifugia nella lettura di un classico, per dialogare con gli autori del passato e schiarirci il mistero dell’uomo.

 

Roberto Cavallaro

 


[1] Herman Melville, Presentimenti (1860), Poesie di guerra e di mare, trad. it. Roberto Musappi (a cura di), Mondadori, Milano, 2019, p. 3. 

[2] Herman Melville, John Marr (1888), Poesie di guerra e di mare, trad. it. Roberto Musappi (a cura di), Mondadori, Milano, 2019, p. 169.