La casa della fame - Dambudzo Marechera

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Con La casa della fame dello scrittore africano Dambudzo Marechera la casa editrice Racconti edizioni inaugura la collana dedicata alle novelle, vale a dire ai racconti lunghi.

La novella tratta di un giovane studente universitario degli anni ’70 che decide di lasciare il ghetto di Rusape (Rhodesia Meridionale, oggi Zimbabwe) in cui è cresciuto. Tutto ciò avviene con un incipit secco e diretto come un pugno sul naso: “Presi le mie cose e me ne andai”. Subito dopo apprendiamo che sta andando al bar del ghetto, ma che non ha nessuna intenzione di tornare alla casa della fame. Quella dimora toglie “ogni boccone di sanità mentale” e tiene ingabbiati i suoi inquilini in una ragnatela per trasformali in “torcibudella”. I torcibudella hanno “fame della propria anima” e il protagonista della novella ne ha più di tutti. La sua è una fame di conoscenza e di riscatto.

Non sopporta più la violenza che fino a quel momento ha caratterizzato la sua vita. Come al bar le fa notare Julia, la ragazza nera con labbra cremisi e seni prominenti su cui campeggia la maglietta della leggenda Zimbabwe con cui ha avuto una storia, il giovane studente universitario appare confuso. In realtà ne ha abbastanza della segregazione razziale del regime di Ian Smith, di ricevere sberle dalla madre perché gli parla in inglese e lei capisce solo lo shona (una lingua africana) e le parole a causa dell’alcolismo si scontrano al passaggio al livello in cui ha trovato la morte il vecchio vagabondo che raccontava storie; ma soprattutto ne ha abbastanza “di dire che è bello” essere nero ed è “stanco della gente che si ammacca le nocche” sul suo volto. Così mentre il corpo è temporaneamente al bar assistiamo al girovagare della sua mente raminga nei meandri del suo passato. Un passato fatto di frammenti di carne, fango e sangue in cui nessuno ne è immune.

Non è immune Immaculate, la compagna di suo fratello Peter che ha appena avuto un bambino e che viene picchiata dal compagno ogni giorno ma lei, che ha avuto la triste sorte di nascere “nella turpitudine della nostra storia”, resiste con coraggio con i suoi occhi “ferini”. Oppure Nestar, la regina delle prostitute e primo amore del protagonista, che era stata sua compagna di classe e che quando è stata messa incinta ha dovuto lasciare la scuola e che per tirare avanti ha dovuto vendere il corpo e partorire da sola, senza nessuno al mondo, in un dannato fiume, e ora il figlio è un bulletto senza spina dorsale che stupra le ragazze incoscienti.

Però non si deve pensare che questa vita brutale coinvolga soltanto i neri. Ci sono anche i bianchi che ne rimangono travolti. Come l’artista Patricia, la sua ultima ragazza, che è stata picchiata all’università nel pieno di una manifestazione razzista di bianchi e lui non ha potuto fare niente per proteggerla, anzi ne è uscito ammaccato. Però lei ha avuto la peggio, poiché da quel giorno non è stata più la stessa.

Con La casa della fame Marechera ci mostra con un uso espressionista della parola e periodi ricchi di metafore mai superflue che restano incise nella pelle il grido di un’umanità in fermento alla ricerca di riscatto. La vita del giovane studente universitario vagabondo con i suoi sogni, incubi, amore per la letteratura, le cicatrici del passato e un futuro incerto prossimo all’abisso si intreccia con le vite degli altri personaggi, perfettamente rappresentati, e che forse non riuscirà mai a lasciarsi alle spalle. Marechera aveva soltanto trentacinque anni quando l’Aids, l’alcolismo e la schizofrenia se lo sono portati via. Di lui non potremmo avere più niente, ma ci ha lasciato questa novella che è un diamante della letteratura e un romanzo, Black Sunlight, che purtroppo non è mai stato tradotto in italiano.

Con La casa della fame Marechera ci vuole scuotere le nostre coscienze assopite e ci riesce appieno con la sua scrittura geniale.

Il ghetto di Rusape non è poi così diverso dai bassifondi di Messina descritti da Vitarelli in Sireine dove c’è la bambina prostituta che manda avanti la baracca, oppure la Monto della Dublino dell’Ulisse – a proposito Marechera è considerato il Joyce africano – o ancora l’umanità composita della Comedie humaine di Balzac, le banlieues della Parigi piena di miserabili di Hugo o le periferie inglesi descritte da Dickens e da cui sono scaturiti gruppi come i Black Sabbath (Birmingham), gli Smith (Manchester) o gli Iron Maiden (Londra).

Il valore della novella venne colto fin da subito. Marechera scrisse la casa della fame quando fu espulso dall’università di Oxford in cui studiava letteratura. In quel momento era un clandestino e la sua mente partorì questo gioiello letterario pari a opere come La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth. Scrittrici dal calibro di Doris Lessing dissero che leggere la novella di Marechera è come “ascoltare un grido”. Il romanzo ottenne successo anche all’estero, come ad esempio in Germania dove fece una tournée, e alla fine si cercò in Rhodesia di farne un film, ma non se ne fece niente perché lo scrittore non riuscì a domare la schizofrenia e fece saltare baracche e burattini.

La casa della fame è una novella che non potete fare a meno di leggere. La si dovrebbe portare sempre appresso o comunque avercela a portata di mano, perché non tratta semplicemente dello Zimbabwe degli anni ’70, ma ci parla del mondo e soprattutto parla dritto al nostro cuore per far scaturire l’umanità insita in noi.

Grazie Racconti edizioni per aver pubblicato questa bellissima novella.      


Roberto Cavallaro