Il Sacro Ordine della Zammara

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SACER ORDO ZAMMARAE

Storia della Goliardia a Messina

In pieno Medioevo nacque l’”Ordo clericalis” i cui confratelli, esentati dal servizio militare, immuni da processi e affrancati dalle tasse, ricoprivano il ruolo di “Liberi uomini di lettere”. Provenivano dalla Francia e dalla Germania e il più celebre di tutti fu Abelardo, che compose anche un carme dal titolo “Ordo vagorum”. Uno scritto che può senz’altro essere definito come il manifesto dei “Clerici vagantes”. “La poesia goliardica dei clerici – scrive Carlo Previtera nel 1938 – è ricca di motivi giocosi e d’entusiasmo per la vita libera, per un godimento che non ha limiti, rotti i freni della morale. Essa canta, con ritmi agili e flessuosi, le donne, il vino, il gioco, con un senso gaio e giocondo della vita”.

Questa sfrenata sensualità ed incontenibile gioia di vivere costò cara ad Abelardo che fu evirato dagli sgherri del canonico Fulberto per aver sedotto sua nipote Eloisa e fu definito, da Agostino da Beta, “Mastro fornicatore” e “Novello Golia”. Da qui il termine di “goliarda”, dal quale derivò la Goliardia. Nel 1200 il re Filippo Augusto di Francia e Innocenzo II riconobbero l’istituzione dell’Università di Parigi e con un editto successivo ordinarono che “[...] tutti i sacerdoti non permettessero ai vaganti e ai Goliardi di cantare versi sui santi e l’Agnus Dei nelle messe e negli Uffizi Divini”: la Goliardia era così ufficialmente nata.

A Messina “Santa Madre Goliardia” ebbe il suo momento di grazia a partire dagli anni Trenta e famose furono le burle goliardiche che Francesco Tropeano aveva escogitato in quegli anni con la sua maccheronica “Accademia dei Sofi”. Il neofita era portato nella stanza cosiddetta dell’”iniziazione” nella sede dell’Accademia, che era l’appartamento dello stesso Tropeano, dove lo si spogliava e gli si faceva indossare un semplice lenzuolo bianco. Quindi due goliardi “Sicofanti”, cioè due soci anziani, gli mostravano un pitale (che non era mai stato usato, ma questo l’ammittendo non lo sapeva). Subito dopo, si sistemava il pitale sul pavimento e, volgendo le spalle al neofita, i due soci facevano l’atto di orinarvi dentro. In realtà il liquido biondo altro non era che birra versata da due bottiglie nascoste fra le pieghe dei manti. A questo punto, parte del contenuto del pitale si versava, a mo’ di “battesimo letterario”, direttamente sul capo dell’incredulo postulante che da quel momento era ammesso nell’Accademia, con il privilegio di bere anche lui, dopo averlo fatto tutti i presenti, lo spumeggiante liquido rimasto nello stomachevole “calice”.

Ma il periodo ruggente delle “Feriae matriculorum” messinesi fu quello degli anni Cinquanta. Si arrivava persino ad allestire esilaranti carri allegorici che sfilavano sul basolato lavico delle principali vie cittadine, trainati su “carrumatti” da una pariglia di virilissimi buoi bardati a festa e gremiti all’inverosimile da goliardi con la classica feluca in testa. E così gli anni della Goliardia messinese scorrevano fra accanite “cacce alle fetentissime matricole”, “cinema a sbafo”, “balli di primavera”, emozionanti corse con i “carritteddhia cuscinetti a sfera lungo il perimetro dell’Ateneo, partite a scacchi viventi, elezioni di “Miss Goliardia”. E la sera si andava tutti nel viale San Martino, ostentando con orgoglio il variopinto berretto goliardico, la “feluca”. Le matricole dovevano portarlo rigorosamente nudo. I “fagioli”, II° anno, potevano adornarlo con sette elementi, ma senza nessun pendaglio come piume, code o sottogola. Gli “anziani”, i venerabilissimi anziani, non avevano restrizione alcuna. I “fuoricorso” potevano adornarlo con una penna di pavone o una coda, mentre i “laureandi” lo bardavano con una frangia d’oro o altro modello nobile. Infine, le piume erano riservate ai “Gran maestri” degli ordini goliardici e ai componenti dei loro Consigli.

I “delitti” contro i principi e le tradizioni di “Nostra Sancta Matre Goliardia” si punivano con apposite bolle d’infamia dove il reo era allegoricamente “recoverto de merda” lasciandogli solo “li occhi per piangere et le mani per li minuti piaceri”. Per “deambulare liciter et libenter omnes bucos nostri Atenei”, a Messina era indispensabile che la “fetentissima matricola” si munisse di un apposito lasciapassare, il cosiddetto “papiro”, rilasciato dal “Sacer Ordo Zammare” e che si otteneva a pagamento, “absolvendo lo debito in nomine Bacci, Tabacci e Venerisque, non modo pecunia”. L’Ordine goliardico messinese col nome di “Sacer Ordo Zammarae Seanatus Universitas Messanae”, fondato nel 1947 (Grifone, Augusto Pollicina; Vicario Generale, Antonio Minissale; Senatori, Paolo Chiassone, Mimmo Giorgianni, Leo La Rosa, Pasquale Princi, Antonino Scimone, Francesco Currò, Gaetano Bellomo), aveva come emblema una pianta di agave americana originaria del Messico e naturalizzata in Sicilia, dalla caratteristica effiorescenza centrale e alta alcuni metri. Denominata dialettalmente “zammara” (termine di origine araba che deriva da “sebbana”), era stata scelta per l’evidente allusione all’organo genitale maschile.

Molto diffuso era il “rapimento goliardico” e negli anni Sessanta quattro goliardi di Castanea guidati da Giovanni Parisi tentarono, addirittura, di rapire il Grifone (capo della goliardia messinese) per poi chiederne il “riscatto”. Il rapimento andò a vuoto perché qualcuno, all’ultimo momento, avvertì il Grifone. Ed è ancora vivo nella memoria della città il 26 aprile 1968 quando la Goliardia messinese organizzò una “fantasmagorica festa della matricola”. Quell’anno regnava il Grifone Calogero XII (al secolo Calogero Centofanti) con Pasquale Gioffrè come Vicario generale e senatori dell’Ordine della Zammara, fra gli altri, Pippo Fiore, Francesco Trimarchi, Sergio Billè, Carlo Vermiglio e il “Cucco” (il più anziano universitario) Michele Girelli.

Per l’occasione confluirono a Messina ben 15 mila studenti (in Sicilia solo la città dello Stretto organizzava le “Feriae Matriculorum”) quando Padova ne contava 50 mila e Bologna 40 mila. Il 1968 non fu soltanto l’anno delle rivolte studentesche ma fu anche l’anno in cui la Goliardia iniziò a tramontare. “La Goliardia è morta – scriveva nel ’68 Angelo Molaidi in “Test”, rivista goliardica d’avanguardia – e non perché la società di oggi o il progresso l’abbiano superata. No. L’hanno uccisa un branco di sanguisughe che con lo “status” di goliarda ben poco hanno a che fare [...] Goliardia è sempre più diventato sinonimo di ricatto, di accattonaggio. La libertà dal conformismo si è ridotta al più vieto conformismo: quello cioè di ridurre la Goliardia in un carnevale in cui solo chi va in festa di Matricola in mutande può considerarsi “intelligentemente Goliarda”, solo chi si mette la feluca e il mantello e usa la prima come berretto per accattonaggio e il secondo coma maschera può essere considerato “un astuto Goliarda””. Scrive anche Tanino La Versa (nel 1972 Vicario generale, cioè Grifo pro – tempore a Messina): “Fino al 1976 era normale tradizione, con la scomparsa del Rettore Pugliatti la volontà dei politicanti locali ebbe il sopravvento, così dopo 30 anni si volle distruggere questo giocoso modo di vivere, un’altra parte di Storia e tradizione dell’Università veniva cancellata volutamente. Nell’Ateneo non si innalzavano al cielo i canti di gioia, di vita, di amore”. 

E la verità fu anche questa e, cioè, che si andò appunto perdendo con le mutazioni sociali e con l’eccessiva politicizzazione delle Università il gusto per la crassa ma sana risata e per lo sberleffo irriverente, per il divertimento pulito e fine a se stesso di quando cantavamo: “Cosa importa se voi non volete?/Siete vecchi, barbosi e tiranni!/I Goliardi hanno sempre vent’anni/anche quando ne hanno di più!”.


Nino Principato